domenica 27 ottobre 2013

centocinquant'otto


...cercando l'acme spirituale, viaggio. Per chiese. Modestamente irrequieto, di vanità che non esprimo e non vorrei, ma che sento giungere e che non mi permette di seguire alcuna parola sacra. Mettendomi nella condizione di cercare nel profondo esistere, di capire e capendo, che in quel profondo esistere nego il significato, che sto cercando, quando cerco di catturare l'acme spirituale. E vago tra un luogo sacro e l'altro, sino a fermarmi in una chiesa vuota di fedeli. Dove non si celebra la messa, ma vi è solo il canto registrato di un'opera classica che esce dalle casse musicali, a conforto, a sostegno, di chi a sedere o inginocchiato tra i banchi, invia le proprie preghiere all'Altissimo... 

centocinquantasette

...l'autunno truffaldino che si presenta monocolore indossando il pulviscolo nebbioso. Senza orli o pizzi luminosi stesi all'orizzonte da far pensare a qualcosa di temporaneo, eppure. Convinto di tristezze rappresenta l'inverno che ripiega per rinvenire uscendo estivo racimolando tra le mani il sole a sprazzi, gettandone brandelli inneggianti alla calura ovunque; la cui calura in aria suda brillando sulle schiene, bagnate di chiunque indossi abiti pesanti; tolti e portati a mano sotto gli interminabili e intensi raggi. Di questa giornata nata spenta e poi accesa al pubblico della mia terra, che di domenica. Come solito passeggia tra le viuzze, tra i mercati, tra le vettura parcheggiate, tra le chiese, sulle strisce pedonali, entrando oppure uscendo da qualche bar, passeggiando sulla via: mano nella mano con il proprio caro, con i propri vocianti figli rappresentanti, del mondo che verrà...     

sabato 26 ottobre 2013

centocinquantasei

E fu un sentimento flebile che mi colse. Di felicità salire. Chiedendomi se fosse possibile dopo tanto penare in questa vita irriconoscibile, se fosse diversa da come è;  che mi cogliesse in quel momento. A sedere in chiesa. Tra persone in silenzio e in attesa del principio della messa. Mentre guardavo il muoversi di suore giovani, e una più matura di quelle che stavo osservando, sfilò una chiave e aprì il cancello in ferro che divideva l'altare da noi fedeli. E la vedemmo appoggiare a terra i libercoli per seguire la messa che sarebbe iniziata. E fu lì, che voltandomi da quelle suore che osservavo mi ritrovai a tu per tu la nicchia. Illuminata con la statua della suora col rosario, e muovendo in basso gli occhi, sull'altare sotto vi era una rosa avvolta dalle ragnatele, finta e piccola sostenuta dalla rigidità del gambo in metallo e i petali bianchi dal profilo rosso. Fu un sentimento flebile e impercettibile come un attore che rubi nella gioia, la scena all'inferno. Se fossi stato in strada e distratto dai volti della gente e dai rumori dei motori, non l'avrei percepito come mi parve di percepire. E per quel poco che mi riuscii, mi cullai di speranza, comprendendo l'esattezza dello Spirito Santo, nel concetto di una vita dentro la vita. E fui grato all'ignoto, per come in questi giorni mi avesse svelato con risposte, le domande che nei giorni scorsi mi posi su ogni verità a proposito. Tranquillizzandomi nella forza; e tra quei pensieri, il mondo attorno procedeva. E mi ripresi. Dall'incanto. Con tutto pronto per la messa  iniziata con un canto, vide voltarmi di nuovo all'altare e alle suore che nel frattempo, si erano disposte nello star sedute. Mi alzai dal banco e uscii dalla chiesa. Con la porta che sbattendo piano, mi si chiuse dietro. 

giovedì 24 ottobre 2013

centocinquantacinque 155

Deambulo nella mia miseria, compiacendomi, forse. Di questa forza di non essere che mi distoglie da me, e non mi fa essere. Visto, vissuto, cercato, reclamato da nessuno, o da chi ti aspetteresti. Che ti solleciti e muova la speranza. Che vi sia speranza e il rapporto non debba essere inevitabilmente accettato per quello che è. Nei nostri fallimenti. Dove la vita ci ha disegnato orientato e allontanandoci, l'uno dall'altro. Sto nella mia miseria. Con accenni interiori d'insoddisfazione, e il nefasto orrore, che ogni mio orrore, sia apertamente svelato dalla disperazione che conservo libera, in me. Soprattutto. Quando sono esanime. Esausto d'imprecare in solitudine un aiuto che pare non servire, sopportando che quell'aiuto non giunga, e non giungerà. Inaspettato. Ma sempre ordinato e come si deve: allo stesso orario. Da chi afferma, di volerti bene. In quella solitudine in cui deambuli raccattando le tue miserie. Tue e di nessun'altro. Poiché, non vi è nessuno dove deambulo qui, nella mia miseria. Di silenzio. Con l'osso duro del pomo di Adamo, e gli occhi stretti di veleno, accesi in piena calma. Dentro di me. Che attendo d'essere amato all'ora esatta. Come un'abitudine messa lì da qualcuno, o presente per una ricorrenza;  mentre deambulo. Migliorando. Piano. Meno di come credo. Meno di anni fa. E andrei più in la. Ma non mi fido delle mie capacità. E allora attendo di essere amato all'ora esatta. Lei sa, che in fondo guarirò lo stesso: amore esatto o inesatto che sia. E sarò guarito. Quando tornerò ad essere come prima. Indolente sgarbato a sprazzi. Lunatico. Allora, si sarò guarito. E forse non avrò bisogno di essere amato: ma per ora si. E deambulo nella mia miseria in solitudine, compiacendomi forse; di questa forza di non essere che mi distoglie da me, e non mi fa essere. Ma non ho nient'altro che questo: pensare di non essere per immaginar l'amore che mi accalori il cuore.  

centocinquantaquattro

Cede il trono
il sole a livide nubi
sul volto del cielo cupo, ormai. Sera
di
m
e
z
z
o
giorno.
Corrono
i demoni in carrozza
su saette bianche sibilanti.
Cori di tuoni ruttanti dalla bocca
spalancata del vento digeriscono
l'estate.
L
a
c
r
i
m
a
n
d
o
 
grandine.

centocinquantatre

Sto
su un piano
i
n    
c         
l               
i                    
n                       
a                             
t                                  
o                                      
l'equilibrio la mia abilità.
La finzione la mia religione. Mi
abito: mi ignoro. In un lampo d'odio
rotolo senza punteggiatura, d'impeto
nella mia indole. Madrigale slabbrata.
Uomo senza pregio: compaio notizia
scompaio senza peso. Marco il territorio
con volute di fumo e in casi estremi con
teoremi cifrati. Conosco le buone maniere.
Sbeccato. Ciò che è goffo mi assomiglia.
Tratto sogni
in solchi di
vinile il cibo
vegetariano
impagliato
lo divoro
insapore.
L
e
g
o
s
l
e
g
o
 dolore vivo assopendolo. Occhi di carta, fili d'inchiostro.
La svestizione di un mostro? Non esageriamo né circense
né poeta, solo figlio di puttana. Isabella libero verso la mia
sottana; e che non sia la morte a liberar lo spirito. Amen 
( Per modo di dire )

domenica 20 ottobre 2013

centocinquantadue 152

Le sue recriminazioni.
I suoi silenzi.
I suoi dubbi.
Erano
il
rituale
i
c
o
n
s
c
i
o
per
e
v    
o       
c          
a              
r                  
e                      la
fine.


centocinquant'uno 151

Lei
pretende
 da me
ciò che 
nessun uomo
subirebbe da Lei.

centocinquanta 150

La mia verità, che ritengo sia essere presunta, è. Che il buon esempio; quello umano e riconosciuto come tale da sempre. Che avrebbe potuto, dovuto, essere la roccaforte per Lei, al suo interno. Dove avviene la vita svolgendosi, prima ancora di realizzarsi nella sua fattualità e  molteplicità di ramificazioni. Quell'esempio, non attecchì mai nell'imo.  Ma parzialmente come avviene a molti di noi. Sulle mura della nostra periferia umana, come un'edera rossa invasata. Lontana dal cuore. Cuore che per lungo tempo immaginò la possibilità del proprio sussulto. Memore. Di un'emozione simile o presunta simile, provata tempo prima. Ma in sostanza, l'esempio così vissuto come Lei ebbe modo di vederlo attuato. Nobile tra i due genitori, che viceversa non riuscirono a manipolarlo e nobile non fu,  non giovò. Per Lei. Se queste due persone che erano i suoi genitori, vissero stabilmente tristi, insieme. In quella postura del matrimonio che recita: fin che morte non vi separi. E la mancanza di quell'esempio, che Lei non ricevette, fu nel paradosso del cane che si morde la coda, la causa delle incomprensioni dei genitori, i quali non furono tra loro né partecipi, sussidiari, o amorevolmente flessibili. Richiedendo  una sorta di rigidità da quell'esempio, si, ma che fosse riverbero di malleabilità confortevole. Ma solo la rigidità, in verità emerse dal loro esempio. E così per Lei. Con la rigidità, che maturava per germinazione spontanea il resto del mondo dei sentimenti, che doveva essere compreso per poter germinare: fu travolto. Dalla quella tristezza e instabilità. Rigida e vivente in quell'esempio, che se fosse stato attuato con i criteri che esso richiedeva li avrebbe superati divenendo gioia. Mostrando loro come essere fari di notte e con la luce sulle acque torbide del mare, individuare il cammino. Che avrebbero dovuto percorrere. Raggiungendo la coerenza. Per propagarla a quel punto. Dritta e semplice come si poteva vedere nella sua impossibile difficoltà. Divenendo essi, testimoni di quell'esempio. Per tutti coloro che attraverso la vita frequentavano questo esempio, e che attraverso l'esempio frequentavano la vita. Non vi riuscirono; e l'esperimento mai divenuto esempio,  stabilì diversamente. Che ciascuno  singolarmente, rimanesse in solitudine ? e chissà come andarono le cose. Soli avrebbero percorso più cammino ? Ce lo si può auspicare. Ce lo possiamo dire. Avremmo potuto pronosticarlo. Eppure. Entrambi rischiarono. Pur di vivere insieme, rendendo sterile di amore l'esempio. E Lei in quella sterilità di esempio: nacque. E in quell'esempio maturò la sua repressa non vivacità per il mondo, e. Per conto mio. Mi venne da dire: che la faccenda fu complessa, accuratamente inquieta, ma quella matrice rivolta all'esempio, vale. Seppure non decollò. Più che altro sollevandosi, e cadendo. Per risollevarsi e ricadere. In un rimbalzo costante. Lei ne trasse insegnamento negativo. E come Lei, le altre sorelle che vennero dopo. Oppure l'esempio necessitava di sguardi adulti e di ermeneutica adulta per essere compreso ? Così infarcito di misere finezze per essere. Con cui l'uomo di qualsiasi tempo si approccia rude. Comunque la vita passò, per i genitori di Lei, e di quei figli che avevano generato nessuno trovò il conforto di quell'esempio e si dovettero accontentare. Come si accontentano gli animali che goffamente e sapientemente brucano l'erba nei campi. Osservandosi vacuamente di tanto in tanto attorno, sul mondo. Che non appartiene alla loro sensibilità, non avendo il sapore né l'odore dell'erba.
         
             

centoquarantanove

sulla terra: conta
avere; per il cielo
conta essere: tutto
sommato non 
mi posso
lamentare.
Per il
m
o
m
e
n
t
o
sono in cattive acque.

venerdì 18 ottobre 2013

centoquarant'otto

 
Io.
Scamone
 all'aglione
caglio, sale,
latte di pecora.
Pennicilium roqueforti
tozzo di pane baulone
dalla gobba taurina
all'olio
crosta friabile.
Cuore mollicoso. Immancabile
lambrusco graspa rossa.
Il bicchiere sberciato
da circolo ricreativo
- anziani col cappello -.
Servizio ottuagenario.
Si mangia se il cameriere
c'ha
memoria.
E
si beve
 se ti vede e
<<..taci che mi ha visto..>>
Tra noi a tergo
toponomastica offuscata.
Deserto del Gobi. 70
 chilometri in bicicletta 30 in
lingua salmistrata e penzolante.
Sottotitoli:
esponenziali in
emorroidi al barbecue.
Marchio registrato. Un
cardo nel culo senza requie. Ce 
n'era abbastanza e scattò la rissa:
 forchetta & coltello a 4 ganasce.


centoquarantasette

e
il
sole
fu invitato
a uscire: troppo
volgare e
la luna a uscire : troppo
triste
e
non
fu
sera e
non fu mattina.


centoquarantasei

Villach: come un siluro di penne chiare l'anatra scattando s'immerge in apnea per cacciare il pesce. La coppia di biciclette galleggianti scivola sul lago; e dalla spiaggia verde di erba rasata ogni alunno in fila indiana, si avvicina all'acqua con la propria tavola da surf sotto il braccio. Le due donne mature nuotano stile rana, chiacchierano giungendo a riva riemergendo sgocciolando s'incamminano verso i teli, sdraiandovisi sopra, entrambe sorridendo di freschezza. Un'altra donna sotto la canna arcuata metallica della doccia all'aperto: la guarda; premendo il pulsante del getto per distanziarsi dall'acqua, con ritrosia bagnandosi frettolosamente. La donna all'ombra dell'albero con la corteccia bianca e maculata ha la maglia leggera di voil, azzurra, e il cappello largo e circolare di color celeste e sta leggendo un libro. Di fianco ha una borsa semi aperta di color azzurro. Una barca gialla con l'ombrellone aperto color verde, scivola rasente il canneto. L'uomo in canottiera bianca ha la pelle abbronzata. Il kayak supera la barca pagaiando  le pale blu, sull'acqua cheta e lievemente increspata dal movimento. Il vociare alle mie spalle è di un gruppo di giovani dalla carnagione chiara e con l'acconciatura alla moda; con la ragazza seduta che si copre la testa con l'asciugamano, mentre un ragazzo steso a fianco si sta spalmando l'abbronzante sulla pancia. Il fisico asciutto è dell'anziano che passa raccogliendo alcune sterpi sulla spiaggia, e guardandomi mi chiede dell'acqua <<...è fredda eh !?  >>. Gli sorrido rispondendo di si. Guardandolo passare. Scorgo la donna al largo che nuota lieve dentro il suo costume intero, facendosi baciare il capo, dal sole. L'uomo in pantaloni corti e le mani in tasca che sta là, ha le caviglie in acqua e guarda l'orizzonte. Alcune alunne della scuola di surf, al largo sulla loro tavola stando stese pagaiando con le mani, verso riva.                

giovedì 17 ottobre 2013

centoquarantacinque

La barista con una svista è convinta. A prima vista, che io tenti la conquista. In realtà non è il mio tipo. E aspetto il caffè e la schiuma spessa un dito. E' il mio rito e il suo rossore mi crea timore, una leggera apprensione. Si sa è diffusa l'opinione il caffè è una religione e senza perizia diventa liquirizia e nei peggiori casi acqua per i vasi. Non voglio smettere di fumare. Costei è convinta che la voglia amare. Ma il caffè è una filosofia e come tale per me un'agonia. Sapore, aroma, densità, in tazza grande, in tazza fredda, lungo, macchiato corretto, ristretto, normale, se mi devo svegliare, andare al mare, o semplicemente defecare. Il caffè è un'ideologia. Diciamo una monarchia di unità nazionale e poi subito il giornale. Non c'è inno o rivoluzione che sovverta la tradizione del caffè. Mi rendo conto della situazione: sono caffeinomane per deduzione. E scruto, e osservo con discrezione, mentre la barista pensa all'incavo delle sue tettone: decolté perfetto. Le dico; avevo detto lungo, non ristretto, lascia stare. Ma non pensare a ciò che è eretto, se no il caffè, è sempre in difetto.    

centoquarantaquattro

le palpebre chiuse gli occhi come velieri ho rincorso tra i sogni ipotesi future.

centoquarantatre

Donna
 
incompresa o inascoltata: scaturigine
della commiserazione di sé.
Che esalta l'io.

centoquarantadue

Lifting
 
citò a giudizio il tempo per vilipendio alla carne.

centoquarant'uno

L'azienda

Eccolo
 il luogo dove
infanti smisurati
in mancanza di coltello
imparano giochi di sguardi
e gomiti.
Eccolo il luogo
dove trame
sapienti
s'aggrovigliano
silenti su graticole acuminate
e viceversa brancaleoni dalle
parole spostate s'inventano
trame sbrindellate. Eccolo il
luogo, dove l'unica certezza
è che ognuno darà il peggio
di sé, odiando gli altri per
questa rivelazione. Che
non ha niente a che fare
proprio niente con quello
che pensavamo di essere.
Eccolo
il luogo
dove
tutti si
beatificano codardi e
melliflui in nome dell'anticristo.


mercoledì 16 ottobre 2013

centoquaranta

Sardegna di notte


le
montagne
interruppero le nuvole
fiocchi di stelle bucarono il cielo
pipistrelli e poeti s'abbeverarono
alla luna; si srotolò il vento
masticò sabbia
l'arenile
e il mare danzavano ancora.
Sellai il sole: due corone
gli speroni
e cavalcai
il buio
di una
notte ineffabile
 nel rincorrere il senso in quel frammento.

centotrentanove

Sardegna di giorno


tra
costole
 di nuvole
la luna in anticipo
s'abbronzò di bianco
fuori dal buio; folate
spioventi, spigolose del
vento ravvivavano i
cespugli con satira
e scherno.
Istruito
dalla
pioggia un cardo nella
sabbia declamò ai miei
occhi la sua prosa
appuntita:
molto 
prima
che il tramonto ammainasse i propri colori; molto
prima che cielo e mare smettessero d'anagrammarsi.

centotrentotto

Fummo inavvertitamente attratti, da un distratto e formale eloquio. Dove nulla emerse, né affogò in quella circostanza. Le ridiedi il bulbo vitreo, con un truciolo di fulminea resistenza dentro, e sul nugolo del palmo glielo porsi. E quelle cuciture che le rivestivano la mano, l'afferrarono. Poi. La costrinsi a porgere il braccio teso, e la vidi col braccio teso colmare tra noi lentamente le distanze, e come incredulo, di quella disponibilità che colsi; essa, mi comprese, e se in un attimo mi lesse, impresse un silente assenso a sé, a quel colmare le distanze tra noi attendendo col bulbo vitreo; tenendolo sul guanto con fermezza mi osservava ripensando, a quel gesto tra noi compiuto,  che colmava la distanza. Ignoti entrambi per noi stessi, in quel relazionarci nella disputa degli occhi solamente, che in lei trasparivano col riverbero sul volto; e il cielo stava alle sue spalle terso. E mi osservava, e nel riporgerle quel bulbo vitreo cambiò nel silenzio il suo registro. L'atto si espresse in una svolta sulla donna dai toni perentori e l'umore duro, le si sciolse in melodia attenuandosi, nel convincermi. Che non vi era altro che una disponibilità breve e casta che faceva breccia in lei, che io non compresi del tutto: e mi soffermai. E se qualcosa significasse, o per inespressa gioia di essa, vidi ella, fosse stimolata dal mio disinteressato fervere, e profondamente colse la mia vita, certamente essa credette di avvertirlo, e in quell'atto me lo espresse senza dire di eclatante alcunché. Solo un gesto non compiuto, non ancora, e tra noi, vi erano più parole, che esperienza convissute, ignari e umani noi mai visti e mai conosciuti, solo un gesto e mi esortò a riporgerle il bulbo vitreo sul palmo della mano che col braccio teso mi porgeva e si voltò con quel bulbo vitreo che le avevo ridato, riafferrandolo. E la guardai decisa andarsene sui suoi passi vedendola sorridere di me, in un qualcosa che evidentemente la divertiva; forse nella diversità fraterna, oppure soggiogata da una verità minuscola, ora risvegliata, o dall'uguaglianza degli uguali in quella giovinezza tra le quinte, che ancora non svanisce sul crepitio d'un beffardo incavo in volto, comunque lei sostenne a sé, che in quel sorriso che ci fu tra noi, l'uguaglianza si mostrasse sebbene fosse agli antipodi. E sentenziai tra me. Ah queste donne dell'alta società, che nel riordinare le emozioni si confondono, tarando la pietà, ritrovandola in un cruccio di sensualità, e che non sia sensualità; e ognuna lo intima a se stessa dicendosi <<...non supererò quella soglia...! >> E si voltò e non mi guardò. E se ne andò, senza un saluto, così come era venuta.             

martedì 15 ottobre 2013

centotrentasette

Due ratti bagnati dalle piogge, o bagnati dalle acque di sottosuolo, si ritrovano sulla strada gioiosi e finalmente al secco dell'aria aperta. Vanno, e manifestano la stagione degli amori nel rincorrersi sulla via di pomeriggio, resi ignari nel loro gioco dalla natura, che nel sollazzo e sotto il solleone, li vede rincorrersi rapiti, da quel cercarsi e ritrovarsi pur non nascondendosi; agitando rasoterra le code lunghe striscianti e glabre come vermi saettanti rosa sull'asfalto, con il muso aguzzo avanti che ogni tanto si ferma per odorare l'adusto suolo. Con l'olfatto di ognuno, spugna di afrori su cui i due ratti, affabulano mimando istintivamente la testa in quell'annusare come cuccioli, si seguono come segugi, apparendo nei loro trastulli agli occhi umani un horror vacui. Creando trambusto nella psiche del pedone, che scorgendoli indugia, e pensa se continuare o fermarsi, prendendo una direzione oppure un altra; rifermandosi pronto alla retromarcia; invece scatta sgattaiolando avanti infilando i due ratti nel corridoio sulla destra della via, che pare libera; dai ratti che si vedono superati da due gambe che frettolose s'incamminano allargandosi nel distanziarsi da loro, ma in quel movimento. Il timore dei ratti, e l'imbarazzo del passante nell'alchimia di quel sorpasso, getta scompiglio nelle traiettorie con il destino che interviene materializzando tra le gambe del passante, i ratti indemoniati  tra le caviglie che accendono il panico negli occhi del passante, in quel vedersi quegli spregiudicati  ratti i quali danno l'impressione di voler ricordare com'è pregna d'esplosiva santità la vita, anche quando si evidenzi ripugnante. E solo al batter delle mie mani, quando sopraggiungo come nell'aia la massaia indirizza le galline al ricovero, allo stesso modo i ratti ritrovano lesti la buca della chiavica, e adunghiandola v'infilano i musi, scomparendo nel tombino. Con la coda floscia serpentina, ultima a scomparire in un saluto e fuga di vivacità e di morte, in quel tornare al buio nella fogna, percorrendo le fetide e più sicure vie oscure, di madre terra: simili a budella.           

centotrentasei 136

Noi. Che non viviamo per amarci. Immortali pieni di morali, stucchevoli e mai arrendevoli. Alla ragione dell'altro. Ci guardiamo di sottecchi osservando, nel vederci colmi. In irti paesaggi. Fugaci di orgoglio. Che il sole non raggiunge. Non più. Potesse rischiararne i meandri stantii alleati del sangue e il cielo, un tempo. Lo vorrei. Giuro che lo vorrei. 

domenica 13 ottobre 2013

centotrentacinque

se
il retrogusto
della felicità evoca
la propria fine; la tristezza
la dimentica.

centotrentaquattro

Certe donne
nel corso della loro vita
usano la propria gnocca per fare
scaramucce; conservandola nuova
come mai usata: leggiadra, intonsa.

centotrentatre

Ad
un certo
 punto della vita
 di un uomo, disposte
 ad amare per pochi euro ci
sono solo le prostitute. Tutte le altre
vogliono
di più. 

centotrentadue

Tempo fa
camminando
 per la città
 dopo un'alta
e fitta siepe
 di verde rigoglioso
 sul cancello in ferro battuto
 di una villa c'era affisso un cartello
con scritto a caratteri cubitali 
- Pappagallo Attenzione -
e
molto
 più
 in
 piccolo
sotto
c'avevano
aggiunto
- se fischia arriva il Pit bull -    

venerdì 11 ottobre 2013

centotrentuno

Questa rabbia tua senile, ostile, che rima con animali da cortile: e tralascio per non rubare spazio al concetto che esprimo di getto, per poi pentirmi, o maledirmi, o contraddirmi. Nei sentimenti a cui affido i miei nobili intenti. Questa senilità dicevo; da ragazzino quale sei di una certa età che l'esperienza non ha reso maestà rinnegando la maturità per vanità, che non s'avvede dell'etica patetica di una giovinezza avvizzita, e di una saggezza malnutrita. Che dispensa livore, ma la permuta con amore sarebbe più proficua: mi fa pensare onestamente non sia cosa da brava gente, anche se non è grave s'intende; esser moralmente non abbiente.                                           

lunedì 7 ottobre 2013

centotrenta

Oggi: tranne morire, ho fatto la vita da anziano.

centoventinove

Non mi succede di avere nodi alla gola, fossero stille ritorte come ulivi, e. Non mi succede no, ma. E' come se il cuore d'ossidiana in petto, mi si sciogliesse, a scaglie. Di ghiaccio e in ghiaccio, a strati i vapori sollevarsi friggendo le arie circostanti, divenire nebbie torbide e in quella nebbia di vapori, i miasmi. Aghi di sale, pungenti e doloranti che  mi comprimono i pensieri; che razionalmente mi saprebbero dare una spiegazione a ciò che mi accade, ma strozzati lasciano spazio ad una sensazione primitiva d'impotenza. Come un animale sorpreso dal proprio dolore e. Il vacillare di mille cautele fatte d'inganni e di omissioni, nate. Per indurirmi e proteggermi dai dolori quotidiani. Le sento vane. E inutili. Persino e soprattutto, tra gli interstizi riesco a udire lo scricchiolio dei miei propositi pietrificati. Ma ciò che mi turba di più, è l'incapacità di saper gestire il dolore e la fertilità delle emozioni negative. Il distacco che ho attuato per così dire, dalla vita, mi rende infelice e sorpreso dall'occasione, che non riesco a sfruttare a mio vantaggio. In quella rielaborazione del dolore che è sterco della creatività. Il concime su cui si fiorisce in Dio. E se mai un tempo ne fui capace, di rielaborarlo, ora; non lo sono più e vivo lontano dal mio nucleo. Dalla mia forma autentica e primigenia. La più sensibile e. Tanto l'ho protetta da nasconderla ai miei occhi, tanto ho simulato che l'anima è salva, ma i sentimenti ibernati e la commozione che raramente provo, nemmeno quella la sento mia. Ma del mio doppio. Che guarda un uomo. Che ha smesso di vivere, per poter vivere, giacendo in un involucro di carne e ossa in verticale, celebrando la morte anzitempo.    

centoventotto 128

Lei è sconfitta dal presentimento di morte e orrore costante che la inquieta vedendosi sgretolare nel presente tutte le linee del corpo che la definivano in gioventù. Spinta in un buco pieno di nulla cerca la felicità necessaria ed è arduo il tentativo di significare a sé. Al cappio dell'io giunge concessa la propria coscienza che emotivamente reputa lecita. Riabilita così la carne che fuoriesce dai confini dell'estetica la nobilita vincolandola al degrado. Si concede desiderio, prima che al proprio. Ottenebra il sentimento profondo che ci preserva; nello stare in silenzio con sé raggiunge l'equilibrio. La vedo abbandonarsi per fare largo alla salvezza di matrice impietosa. Che giunge deambulando chiusa nei pensieri di conforto privo dall'eco trasmesso dalla carne amata per disperazione; debole sull'amore, naufraga non strutturandosi per nulla nel profondo dell'imo.


    

sabato 5 ottobre 2013

centoventisette

Al chiarore dove gli occhi si determinano nel qui calibrando in ordine i pensieri; richiamandoli dal nulla riassesto l'organismo sin nelle ossa; per deambulare sul precipizio rigido con certezze congrue; sotto le nuvole oggi bicolori di piombo a striature rossastre nel loro esser diurne; provengono dalla notte quand'erano scure nello scuro indistinguibili sorvolano quiete il giorno che si preannuncia immobile ed egregio per come si pone visibile di luce; e che dal gelo non si spegne indemoniato su ogni cosa con calma serafica s'infiamma al tatto; indigna soprattutto il ferro trasformarsi d'energia sino alle ossa; di ogni mano che si ritrae nascosta, come le nasconderebbe un ladro, le affondo nelle tasche dei pantaloni della tuta; con cui sono imbacuccato al mattino presto; assomiglio ad un uomo blu del deserto e rifletto che c'è qualcosa di desertico in tutti noi; qui sul piazzale con le mani in tasca il volto rivolto al cielo; indosso la cuffia di lana nera gli occhiali da sole nessuno mi riconoscerebbe; guardo quest'alba che fa capolino presentandosi riprincipia il giorno l'ennesima volta.      

centoventisei 126

Scrissi sul biglietto di buon compleanno una poesia nascondendola nel regalo che le avevo acquistato. Erano auguri sinceri, autentici, ma quando la udii leggerli, pensai fosse la donna sbagliata. Avevano il sapore di falsità. In realtà a chi avrei voluto inviarli gli  auguri ? Gli auguri sono questi:

auguri di buon compleanno
Col nome abbreviato di Dio i numi ti sorreggono se lo vuoi colmando i numeri in un magico declivio. Dal tuo respiro decollano le muse, nelle mani le vene in superficie lieve si disegnano tu artisticamente suolo dalla capigliatura corvina nell'inchiostro d'un pittore sulla propria tavolozza. Questo giardino dei tuoi pensieri ordinati, nel sonno dei tuoi occhi vive l'universo sul cornicione della via lattea, per un tuffo mirato sul globo che ruota nel tempo dentro la carta in cui viveva. Tra sabbie e  istruzioni il rastrello la paletta che tieni in mano nella sorpresa e lo sconcerto. Mi guardi alzando alzi gli occhi, mentre ti dico << auguri amore >>.
                        
 

centoventicinque 125

L'impressione fu: che passato un periodo tra noi tetro di considerazioni che ci agitavano per come non fossero lusinghieri, ma ricchi di pochezza, Lei, che aveva letto i miei scritti inerenti al nostro rapporto consumato a quel modo  mediocre, pur maturando un'idea negativa, su quei ritratti e ricostruzioni di eventi riguardanti noi, fatti da me; e che mi disse, di quanto fossero troppo personali e identificabili tutti con la sua persona ( le risposi di non temere, e che le amiche e gli amici con cui usciva non leggevamo mai, e non li avrebbero mai cercati quegli scritti, permettendomi di chiederle che mezzo usassero per scambiarsi opinioni: il linguaggio dei muti ? ) e dunque non condivisibili da parte sua: vi fosse la volontà Lei sosteneva, non di oltraggiarla, denigrarla, offenderla, per quell'amore vituperato da entrambi noi, e a parere mio prevalentemente da Lei; comunque amore trattato da degente che ci aveva visto da protagonisti; bensì Lei focalizzando tutto l'ammasso di fatti e circostanze; vi trovò di sé: l'amante. Musa iniqua e deflagrante, a sua insaputa, di un amore che aveva ottenuto dalla provvidenza, ma non aveva saputo come fare per trattenerlo, non considerandolo valore universale, bensì trattenendolo per abitudine convenienza, comodità, quasi fosse di matrice familiare avutolo per caso; e che si tratta con distrazione lecita e redarguibile da nessuno per ovvietà di relazione. Il nostro amore. Così malato di incomprensione, e squalificato. Di capacità. Dove con pazienza temporale le illustravo per via che Lei tornasse in sé e l'amore tra noi, i vari aspetti e inconvenienti che nel corso dei periodi in cui Lei non si adoperava, andassimo incontro, demolendomi sentimentalmente. Quando vi lesse in quelle mie pagine, l'amore che tra noi vi fu, carnalmente. Mi telefonò. Dopo aver cercato di ottenere nei fatti una riconciliazione, assieme ad un'autorevolezza da giocarsi a parole in quella telefonata che sarebbe seguita,  e che mi fece per poter essere vincente e convincermi nella mia più completa ( sua ), autonomia di desiderare di togliere quella descrizione che ci vedeva amanti nel fare l'amore. Mi disse...<< sono la madre di tuo figlio...e su quello che hai scritto di noi, e che ho letto devo dirti che personalmente... ho una reputazione...! >>. A quelle parole le battute, gagliarde, comiche e sarcastiche, ne avrei avute molteplici, ma risposi. Si. Che avrei tolto dal blog quelle descrizioni di come ci eravamo amati. Non perché avessi ceduto alla ragione con cui voleva sensibilizzarmi, no; ma solo perché in quella telefonata il tono di voce che aveva nel chiedermelo era trepidante. E profondamente doloroso. Come io non avrei capito mai. Non essendo mediocre come Lei dimostrava di essere mostrandosi così borghese e perdente, e a quel punto decisi. Che il mio comprendere le parole che usava per convincermi, potevano essere comprese, solo se avessi ceduto, dalla mia posizione di forza.


da rivedere       

martedì 1 ottobre 2013

centoventiquattro

ripiglio la vita; tra una telefonata e l'altra, che farò. Tra alcuni libri sparsi sul letto, che non leggerò. Tra gli oggetti sparsi anch'essi sopra il letto tolti da una sacca in tela grezza: il portafogli, un libercolo piccolo e nero dentro la custodia di cartone sgualcito, un coltellino multiuso, gli occhiali da sole con le lenti a mascherina e le stanghette piegate un po'. Mi alzo sul busto. Volgendo il capo, e le braccia stese all'indietro. Ripigliandomi la vita, venendo da uno scoramento, da recriminazioni, da dubbi, dall'illusione; osservo più ampiamente tutti gli oggetti che mi circondano. Sul letto dove stavo steso ad occhi chiusi e pensieroso eppure, non pensando a nulla eccetto la vendetta che udii fare capolino e da cui provengo, assorbito in questo mio roteare di  pensieri che vado osservando, non siano eccellenti in questo buco, cul de sec in cui mi ritrovo senza voci che conosco, oppure il  sorriso di chi amo, e me ne esco. Ripigliando  la mia vita con stanchezza. Stando sul letto e vedendo fuori dalla finestra dopo aver superato le tende traforate, vi è il tempo che promette di essere plumbeo. E sto ad occhi aperti e la voce nuova mai usata mi tace in gola. Mi ripiglio. Entrando con la coscienza nella mia vita, e in quello stato in cui ci si trova a non essere, pur vivendo senza alcun pensiero, rispondo al trillo del telefono accorgendomi di vivere attraverso la voce che mi esce nelle parole consequenziali che ascolto nell'andar dicendo, e la voce dall'altro capo del telefono mi fa: << ....ciao disturbo ? ...stavi dormendo ?...>>.

da rivedere