mercoledì 25 dicembre 2013

duecentotrentuno

- 666 -
I'uomo s'intrufolò tra i Neocatecumenali, iniziando a chiamare tutti fratelli ( subito non gli veniva, ma dopo un po' gli passò ) e durante la settimana iniziò a ritrovarsi assieme a tutti questi uomini, che nello sbigottimento dell'uomo veramente si sentivano fratelli, in uno spazio della chiesa chiamata - canonica - a pregare iniziando facendo il segno di croce, leggendo brani della Bibbia ( una pratica disgustosa per l'uomo ) per poi commentarli attravero le risonanze; vivendo di tanto in tanto la consuetudine di fare qualche ritiro spirituale ( la cosa più insopportabile per l'uomo ) durante il fine settimana in un luogo appartato, solitario, dell'appennino o al lago o presso il mare. ( l'uomo viceversa amava la moltitudine, il caos, le orge ) Fu esattamente durante un fine settimana di ritiro spirituale in un albergo, affittato per l'occasione di una due giorni dedicata alle letture sacre, che sbottando durante un'assemblea tra tutta questa gente che si credeva di essere fratelli, l'uomo si alzò, andandosene per sempre: o per dirla, come la disse l'uomo  << ...eccheccazzo ...e va bè lavorare, e va bè la missione, va benissimo il male assoluto guai a rigettarlo, e va bene carpire le informazioni al nemico...ma a tutto c'è un limite...e mica posso convertirmi sul serio !...echeccazzo ...ma che razza di Demonio sarei... ?  >>          

domenica 22 dicembre 2013

duecentotrenta

...una delle differenze tra donne e uomini è che le donne: vivono, imparano, e normalmente sanno; viceversa gli uomini:  vivono, non sempre imparano, e tante volte pare, non sappiano; tanto che molti di costoro danno l'impressione di poter morire, senza saper di aver vissuto...

venerdì 20 dicembre 2013

duecentoventinove

 - a Joe -

... no, non c'ero; non amo l'ufficialità, non sopporto il dolore: lo avverso. E non amo manifestare in pubblico la mia presenza ad un lutto. In queste occasioni risulto essere di quella ieratica compostezza che detesto. Non amo la folla mortificata, che non sa darsi una spiegazione; e nel farlo piange e si commuove. Mi pare che il falso di ognuno di noi, trapeli in queste occasioni lindo e casto sotto forma di male, non indignando affatto. Ho avuto un moto di ripulsa alla notizia della tua morte. Non ne sapevo nulla; tantomeno delle tue vicende. Ci eravamo incrociati sotto il portico qualche tempo prima, e come al solito mi avevi sorriso, come quando si sorride ad un simpatico folle, aspettando la battuta rapida, o una gag, e invece no. Niente di tutto questo successe. Ci incrociammo. E sentii tutta l'eleganza della tua mano in quella stretta che ci demmo; da persona colta e timida, nelle dita fragili; di pelle lieve e nuova; e continuavi a sorridermi attendendoti quelle battute che non giungevano. Avrei dovuto sforzarmi, o forse raccontarti qualche storia che mi riguardava, e farci una risata insieme liberatoria, come a esorcizzare il tutto. Non lo feci. Perchè pensai che in quel momento eravamo distanti, e non so perchè lo pensai. Forse eravamo semplicemente distanti, come la vita aveva deciso; o forse era un momento per me di malumore; e ci saremmo rivisti di nuovo e tutto sarebbe andato per il verso giusto come spesso accade. Per chi vive. Senza pensare che per vedersi e parlarsi, vivi o morti, bisogna essere nella stessa condizione. Siamo stati amici, forse non lo eravamo più. Poco importa. Ti invio il mio pensiero. Il mio spirito vale più del mio corpo, e della mia presenza che quel giorno non avvenne...      

duecentoventotto

n
e
l
l'
 età             del
                                                                          m
o
r
i
r
e                                                                        
    si  
                           riduce                           
                                            tutto                                            
all'
e
s
s
e
n
z
i
a
l
 e.

mercoledì 18 dicembre 2013

duecentoventisette

 la morte per essere compresa esige un'intelligenza che il mondo ignora

duecentoventisei

nel 
regno 
dell'idiozia
 le esperienze 
altrui ci
scivolano 
lontano non
insegnandoci
alcunchè; giungendo a
 stabilire di converso:
 che siamo
 qualitativamente meno,
di ciò che con superbia
 ameremmo pensare di noi stessi

duecentoventicinque

la
verità porta
sempre l'esperienza di sè
  per distinguersi da ogni falsità

domenica 15 dicembre 2013

duecentoventiquattro

working class

e
i tacchi li alzo
all'alba, di buon ora
l'ora in cui Dio è plausibile
nel buio, che scompare 
parafrasando 
vita
morte e miracoli, e in cielo
la luna è l'ombelico nel bigio
dove la luce non è luce e il buio 
non è il buio, e ogni forma è ombra
nel silenzio che confonde per la sua bontà
ammaliando per poi scomparire
intendo alle 5, 30 del meridiano
Greenwich, parallelo più 
parallelo meno; l'ora in cui
puoi sentire l'anima lieve
che rifugge dal fragore 
più o meno qui: se tocchi
lo sterno e poi all'interno
ti si svela come un dono
salire docile alla glottide
sic et sempliciter e mai
lo diresti dentro i passi
lesti che l'anima sfiori
l'iride come le nubi si
sfiorano, e i germogli 
di pensieri stanno in 
equilibrio
finalmente
dentro un
ritmo
circadiano a dire: in sintonia, in asse con uno stelo, un petalo, un sepalo
and a thorn, upon
a summer morn
a flask of dew 
a bee or two
a breeze a
caper in the 
trees, and i am a rose.
E fendo l'aria che mi rifluisce dietro
innalzandosi a pennacchio d'Achille o Cipputi
in ogni caso: ci vogliono gli attributi; e cammino
scontrandomi col fresco, agili e rapidi siamo entrambi:
enjambement: doppio passo alla Garricha mentre penso
non sia più tempo di congetture: avvio il motore nel grigiore di un Bartleby a ore.  

duecentoventitre

 - Domenica: l'elemosina -

...dopo essermi svincolato dalle nebbie di periferia, mi ritrovavo sotto il portico del grano, a camminare tra cappotti e sciarpe, berrette di lana, negozi aperti, bar ancora semivuoti, e ad un certo punto sbuca un uomo con la bicicletta a mano indossando un cappotto liso, dei guanti di lana consumati; venedomi incontro mi allunga l'altra di mano: implorando con garbo <<...signore ha un euro da darmi per un caffè ? >> immediatamente mi fermo e raccogliendo dalla tasca delle monete, apro il palmo della mano davanti a lui, controllando quali monete gli posso dare. L'uomo che mi vede aprire la mano piena di monete luccicanti, le guarda come fossero d'oro e di nuovo mi ripete <<...signore mi da due euro che devo prendere un caffè ? >> e allora siccome son povero, ma non fesso, e le monete che ho sul palmo della mano non son d'oro, ma piuttosto di latta, gli faccio l'elemosina dandogli 1 euro e 20 centesimi, per star tranquilli: con 'stì prezzi che aumentano sempre non si sa mai, se il prezzo delle cose è rimasto tale e quale alla volta scorsa, o è un altro...       

duecentoventidue

come denti

           come 
          d
        e
   n
t
 i
         ai
                        confini o
         all'inizio di un volto                       
                     le 
                        s
               t
        e
l
l       
 e;              e il
                                        sole          
             glottide eloquente                            
                                                                         appesa al nulla.                                                                                                                          

duecentoventuno

33

e
i dubbi 
su di Me son nostalgie.
Vedimi, e doucement  abbassa
il rumore dei tuoi pensieri. Sono
ovunque, onniscente, o tra i pigmenti
di uno sfondo; eccomi : Here i am.
E ascolta: innanzi a tutto sono spirito
i want to take you higher, e di colore
son le linee del palmo, di ogni mano e
di ogni mano vedi di lontano l'indice
indicare il sole sulla croce: è testimonianza
Mia per amore, che con quel gesto M'invoca 
che dall'alto Io possa scendere su di ognuno;  per
voi tutti che ascoltate qui mentre  nel corso della
vita ci si dibatte; con le Mie parole, intimamente
di ciascuno, se in Me confidate:
esse si attueranno.
E non cercarmi
nella razionalità o nell'eloquenza; le parole
risulterebbero antiquate, superstiziose, o semplicemente fiacche;
ma incisive se d'istinto Mi appartieni: sei libero di non credere.

martedì 10 dicembre 2013

duecentoventi 220

Quando ci incontriamo, ci detestiamo in sotto traccia. Come se ci fosse tra noi una linea d'aria esatta a bassa tensione; pronta e spenta per via di non rinfacciarcelo chiaro a voce. Nei fatti che commettiamo in quel relazionarci; dove l'idea di fondo è che l'altro voglia defilarsi dal litigio triviale e sonorizzato, scegliendo una boutade lieve e scontrosa ( a innescare un'implosione interiore ) dal tono indelicato necessario per il proprio ego, con l'assunto ripiegato nel tono della voce a modo di:  <<...se non senti:... questa la senti...>> Verificando in silenzio nel contempo, l'efficacia dello sgarbo, attendendo religiosamente compunto/compunta la risposta <<... l'hai sentita ?...>>  Con noncuranza algida sul viso di soddisfazione se la boutade si è dimostrata efficacemente congrua. Così, nutriamo l'idea che l'altro sia perdente. Ed è sufficiente a soddisfare ognuno momentaneamente in superficie, anche se in profondità rimane un/una testa di cazzo. <<...e a voglia fargli delle boutade quello/quella avrebbe bisogno di un lavaggio del cervello!...>> E in quella boutade: Lo guardi/ La guardi. Cambiando espressione se Lei/ Lui vacilla, ma. Poi non crolla. Come ti augurasti nelle prerogative della boutade. Quando la escogitasti come ritorsione di chissà quale fatto successo tempo prima. Ora uno davanti all'altro, stiamo come due fessi. Duri. Con quel sorrisino serio; come quando viene il postino e lo manderesti a cagare a lui e le sue raccomandate; oppure sei tu il postino, e vedi una con un sorriso del cazzo che la manderesti a fare in culo. Ti apre la porta e ti parla.Vi parlate. Come due sconosciuti. Ci guardiamo. Controversi, nell'abitudine di esserci visti innumerevoli volte. Pensando, che ciò che avviene tra noi è così, poichè Lei/Lui è così e non diversamente. E Lui, cioè io sono così e non diversamente nell'attuare questa querelle. La quale è nata perchè, perchè, Più passa il tempo e più uno non se lo ricorda il perchè. Di cosa. E ti innervosisci. Prendendo a caso la ragione del litigio costante, perenne: che alla fin fine la colpa è sua di Lei. Che non capisce un cazzo ! O Lui che non capisce un cazzo! Questa è la ragione, e tu. Ti senti vago nell'attenzione, per parlare: e di che parliamo con quell'espressione del viso entrambi qui. Sulla soglia della porta, a guardarci con quel sorriso da stronzi!
        

domenica 8 dicembre 2013

duecentodiciannove 219

Ti ho vista; e ho visto il colore delle tue mani rosse, ragrinzite, e affaticate forse abbrustolite dal freddo, sicuramente stanche. E non ho potuto far altro che desiderare di stringerle, per infonder loro un po' di calore. Anche se ci detestiamo, a parole. E ti assicuro, che per un attimo ho pensato che siamo folli. A non volerci. E in quel pensarlo le ho desiderate. Da stringere nelle mie, e chiederti <<...cosa stiamo facendo ?...cosa abbiamo fatto ?...e se abbiamo fatto qualcosa...cosa abbiamo fatto di così inesorabile ? Ricordi ? Ci fu una volta che ognuno di noi disse all'altro che ci volevamo bene. E quando ci abbracciavamo odorandoci tra i vestiti ? che dopo un po' li sfilavamo; con gli odori liberi di sciogliersi nell'aria, come noi liberi di amarci ? Fusi nell'odore di abiti pregni d'umidità che ci assaliva sui corpi: quante volte è successo. E qualche volta dico a me stesso: che ti ho amato profondamente, e forse anche tu. Del resto non potevi fare altro. Che essere travolta, e felice di quel mio amore; che ti manifestavo arrossato e vulcanico di passione; tu e solo tu, per me, e io per te per sempre ad amarci come si amano le cose agli inizi del mondo; guardando Dio stupiti, di quella felicità che si raggiunge insieme: e guarda ora come siamo messi. Male: definitivamente male. Non ci amiamo più, tantomeno ci frequentiamo. Tranne in queste occasioni, dove nostro figlio ci chiama a rapporto come genitori. Io e te, perfettamente ignari di entrambi: siamo degli sconosciuti. Su questa pancaccia a sedere in questo corridoio. Con nostro figlio tra noi. Che guarda imbarazzato e felice, come fossimo concettualmente la sua unità; e alternativamente ci discorre; e mentre parla. Ti vedo. E ti guardo le mani. Affaticate, come il volto su cui non indugio ad osservare: ti voglio bene. Lo posso dire nel mio silenzio, pensando che avresti bisogno di me, per non soffrire di solitudine, si. Certamente anch'io sono solo, ma hai bisogno più tu di me, che io del tuo tristo vuoto. Che non voglio mai più. Ma che ho detto ? Perchè l'ho detto ? Perchè ti vorrei, eppure non ti vorrei ? E poi, chi l'ha detto che sei sola ?   

giovedì 5 dicembre 2013

duecentodiciotto

...quando sono in folle; e vedi gli altri vivere non sentendoti per nulla, e pensi che non ti dispiace nemmeno tanto, respirare la condizione di torpore da premorte che ne scaturisce tutto sommato naturale, e per nulla aliena, tanto da non chiederti il perchè, di questo stato catatonico, che ti fa scivolare nella mediocrità omogenea, con un sorriso di quelli che sibilano veri; e falsi nelle fossette laterali del volto, e dicono: che tutto va storto al mondo, ma a te non importa, in una sorta di menefreghismo giustificato ( nell'imo razionale fino a mezzogiorno ) e comparabile alla passione per qualcosa di serio, ma non importante, e che si dimentica immediatamente, inesorabile, certo, indolore, e tanto convincente che quando ti vedi allo specchio; lo specchio ti fa notare come tu sia un mediocre; ecco, quando ho questi momenti di aridità, dove l'olio che sia santo, vergine, o idraulico, non può oliare nessuno snodo intellettuale per via che si riattivi una connessione; ho il senso della spravvivenza celebrale che mi indirizza verso autori che mi possono salvare...

domenica 1 dicembre 2013

duecentodiciassette

Il gasolio era la nostra coda informe e grigia. Che si agitava nel trasformarsi aerea: dal motore al tubo dello scappamento fuoriuscire a nubi; e curvammo per entrare lesti sulla dormiente piazza; e dallo sterno, tre militi statici e ferrosi comparsero con un vessillo tra le mani; nell'indirizzarsi al fiume con quel gesto eterno dedicato alla grande guerra; mentre noi parcheggiammo la vettura, infilandola sulle costole della piazza, poco sopra il ventre. Scendendo. Osservati silenti dalle architetture maestose circondanti, che tralignavano deformi di screpolato oblio nel conservarsi in arcate e volte, condite al pomeridiano nulla; quando più su, osservammo il cielo nel sole; che pur vedendo, stentava dietro il sipario rannuvolato, per poi concedere magnanimo qualche unghia chilometrica di luce. Al quadro. E svettava il campanile nella propria guglia, di dermatite smeraldina; femmina aristocratica e indolente calzasse un guanto sino al gomito pungendo l'aria al vertice; così rinnovando l'inno a se stessa sovrastando la torre di nobiltà esigua del municipio dirimpetto; che nel cemento armato e bigio, viene sfigurato e gettato nel disprezzo; e stanno uno di fronte all'altro come fossero duellanti eterni; in quel misurarsi sullo spazio, nonostante le ombre del calare, ripiegheranno per entrambi accorciandosi. E l'ombelico, circolare spartitraffico che entrambi si disputano è privo di fontana da cui imbeverarsi quando è caldo: vi è l'erba inglese folta, e un secchio da muratore interrato al centro; ed è nella mente che immagino la fontana che non c'è; nell'avviarmi al termine della piazza, sulla scalinata lastricata in palladiana raggiungiamo l'argine; come ad incamminarci prima sulla fisarmonica della scalinata, poi sulla geometrica basetta dello sterrato tra la chioma di crescente erba che ci circonda; e avviati sulla via sterrata che ci porterà nella selva e al fiume, in questa prospettiva discendente il cartello alle nostre spalle, indica la via intrapresa recitando eloquente - via del peccato-.