mercoledì 29 gennaio 2014

duecentocinquant'uno


                                Camping California ( Corsica ) 4 luglio 2010


 - in spiaggia -

...l'aria elettrica si contrae, ad intermittenze esprimendo le cicale; la rete solare si ondula in amaca infinita che trapassa l'acqua a quadri ridisegnandosi sul fondale; la battigia assorbe le lingue acquose delle onde; che si muovono in un rituale antico congiungendosi; al molesto frinire, che in quel suono saluta lo sciabordio del mare in rapsodia tra i nervi; e i rami a svezzare il mattino che graffiano seccamente il cielo; e dove camminerò, il piccolo coleottero si posa; sul sentiero con le elitre ripiegate, che nel loro lucore rifletteranno. Il mare che ora sto guardando: l'acqua è trasparente...

duecentocinquanta

 - Arturo ed Ernestina -

Arturo ed Ernestina si sposano nel 1890. Entrambi hanno diciassette anni, lei è incinta; Arturo è un bell'uomo; nel corso degli anni sospirando e un po' alticcio, alla moglie Ernestina dice  <<...possibile che un bell'uomo come me, abbia sposato una donna come te ? >>... <<...mbè...chi dei due ha fatto l'affare ? >> Gli risponde Ernestina che non è bella, ma intelligente e Arturo forse lo sa; di sicuro Ernestina ha un temperamento forte: se quando lo vede ubriaco gli dice <<...vè Arturo...non mi picchiare che me ne vado.. ? >> Insieme hanno tredici figli; molti sono morti appena nati, o poco dopo, per qualche malattia. Lei lavora in casa. Arturo è muratore. Conosce il francese avendo lavorato in Francia, e il tedesco per la stassa ragione; sa leggere e scrivere. Anche Ernestina sa leggere; la nipotina ricorda che dalla nonna Ernestina circolava un giornale di cronaca che si chiamava Crimen. Arturo ama l'architettura. Una volta dice alla nipotina <<...quando sei grande vai  a visitare il cimitero di Stallieno...è un museo a cielo aperto...>> Arturo è orgoglioso del cimitero di Stallieno dove ha lavorato per del tempo. Arturo è il terrore degli animali domestici di casa, che quando sentono i suoi passi fuggono. La madre di Arturo era crudele, non aveva mai rispettato gli animali che vedeva in casa. Gli animali pare sappiano che in quel legame tra Arturo e la madre, ci può essere continuità. Dopo qualche anno dalla guerra del 45 arriva dalla Germania: la pensione. La nipotina ricorda che il nonno Arturo era felicissimo. Arturo soffre di angina pectoris, è stato per tutta la vita un bevitore, ma in sostanza ha avuto una vita dura. Nel febbraio del 51 muore. Ernestina lo segue di li a poco. Una sera di ottobre di quell'anno, dopo una partita a carte, si corica sul letto affaticata, e alla nipotina dice <<...lavami i piedi ...>> la nipotina le lava i piedi notando come le unghie siano divenute nere, e va a chiamare un adulto che possa intervenire. Ernestina muore nel letto mentre attende che la nipotina torni con un adulto.

                                                                     
   

martedì 28 gennaio 2014

duecentoquarantanove

     
                                 Camping  A. Marina   3 luglio 2010 ( Corsica )
 - in spiaggia -

...forse la luna è divorata da un coccodrillo in verticale; nato da origami irregolari a mezzogiorno e fisicamente astratti dai venti sulle nubi. La sabbia è spenta di debolezze e con un velo asciutto si proietta alla vista detergendosi dal sottosuolo; ho il palmo della mano ripieno dalla miriade di granelli che mi scorrono tra le dita fuoriuscendo dal di sotto, strozzati in un cunicolo; raccolti li odo brulicare in fondo al cuore; della mano ricoperta in pelle e solcata dalle linee che a ognuno nei fatti indica il destino. E quel ruscello estivo che vedo laggiù, non si sviluppa in un fiume verso il mare; d'inverno sarà una cloaca. Guardo in basso e saluto idealmente i piccoli insetti laboriosi nei crateri; i quali brulicano nel trasportar di tutto: anche la piuma di uccello che in quel minuscolo cratere del terreno non vi passa...
                                                               

                                                        

domenica 26 gennaio 2014

duecentoquarantotto

...chi sono ? La storia è questa. Anni fa provai il desiderio di imparare a scrivere. La necessità era scaturita dal fatto che tranne un paio di volte nel far l'amore, nella mia vita non avevo mai fatto qualcosa di creativo raggiungendo la libertà di essere. Quando lo pensai avevo circa 40 anni; un'età dove la vita per mio conto si era già lungamente dimostrata, da potersi rielaborare, per dominarla ( con la scrittura ) da tutte le ingiustizie che aveva perpetrato nei miei confronti, così esorcizzandola per il passato e per il futuro. Non chiedevo altro che questo. Imparare. Ma la scrittura nei miei confronti non si è dimostrata quella che ai miei occhi era sempre apparsa. Semplice, mansueta, accomodante nel prestarsi alla creatività, ma diveniva concreta ( e legittima ) con l'esperienza. L'esperienza in ogni attività umana è fondamentale, poichè con l'esperienza raggiungi il nesso delle cose prima che con la sapienza e la cultura. L'esperienza nel mio caso, ha una controindicazione: che in quello che scrivo ( a volte ), chiunque possa trovarvi un riferimento personale, come a trovarsi di fronte ad uno specchio. E' inevitabile che sia così. Il materiale umano fatto di debolezze che adopero per raccontare è prevalentemente mio ( lo vado a scovare dentro di me, nei cunicoli dell'anima come uno speleologo con la torcia sul caschetto, ma non sempre ci riesco sebbene quella è l'intenzione che mi muove)  e che riscontro anche negli altri e dunque: di chiunque. Personalmente sono abituato a questo piccolo sacrificio, nel portare la mia testimonianza del mondo al mondo, attraverso la scrittura, per chi abbia desiderio e tempo di leggere, traendone ispirazione suscitando una concatenazione virtuosa di idee o di riflessioni da poter fare e nel concreto realizzare ( eventualmente oppure no ) ma non sono abituati a ciò che scrivo, coloro che pensano di essere chiamati direttamente in causa dalle trame che sviluppo. Ecco io sono costui, una sorta di persona comune tra le persone comuni, con un gran desiderio di descrivere e di riportare alla luce ciò che l'uomo tiene nell'ombra o seppellisce, ricreando un mio mondo, sotto la spinta creatrice di un Dio in cui credo, artisticamente ancora prima di ogni rivelazione...     

sabato 25 gennaio 2014

duecentoquarantasette



- Horace Piotto l'uomo col revolver -

Sulle prime quel suo viso di positivo non ispira nulla. Tesa ed asciugata sugli zigomi la pelle, ha tutti i lineamenti che paiono incorniciati in un nervosismo ricucito e sedato sino a raggiungere gli strappi riordinati nel dominio di sè ostentando, in una postilla remota degli occhi, un tuono estratto vivo e che aguzzo scintillante si ritrae vacillando in un pretesto: esploderebbe in ira funesta. Con nulla di buono per chi gli sta di fronte; e il tracollo imminente, ma che in lui non avviene; lo sorseggi in una costante preoccupazione; registrandolo nell'animo al minimo dei giri; e quell'equilibrio che dimostra, non te lo spieghi come possa reggere; se egli discutendo quella tensione che percepisci, realizzi che la sentivi sin dall'incedere, vedendolo; distolto e guardingo come quando hai l'attenzione acuminata e un'arma nel fodero della cintura; comprendi come quest'ira, egli la innaffi tutta, potendo stritolare ciò che lo disturba, in un mix di lucida follia e saggezza. Trasferendo la propria possibile e fattuale ira nel livore tenue d'un mescere battute dallo spirito di serpe; le quali ondeggiano tra il sarcastico il velenifero e la continua rinascita beffarda, in quelle parole non sempre elaborate e forse da strutturare con più ponderazione, ma terapeutiche in quel fuoriuscire dai denti; così egli pare si ritrovi su quel filo dell'equilibrio senza mai precipitare. E le battute paiono nascere da una mente solipsistica, e il più delle volte tu comprendi, nel credere d'intendere come il destino di molte di esse sia di essere perdute nel tran tran quotidiano, per l'incapacità che cogli in lui, di sostenere una tempistica adeguata con qualcuno che non sempre c'è, o è a disposizione per poter esternare alcunchè, o semplicemente perchè, non si può dire a tutti cosa si pensa di loro. E paiono nascere e morire queste sue battute, per sè stesse, con l'unica funzione di alleviare quel suo sguardo sfrontato e temerario sul mondo; egli lo penetra rapido come i bossoli dell'arma che detiene alla vita, fossero esplosi e lanciati verso il bersaglio nella loro missione. E lo vedo passeggiare ostentando una noncuranza dettata dall'andatura quieta e dalle mani infilate in enrambe le tasche; riflettere dalle labbra screpolate come si screpola il fango sotto il sole, un disgusto inerte e ignoto nel rivolgerlo agli altri; sostenendo quel passo nel deambulare ricordando l'esilità e la leggerezza d'un'architettura morfologica d'una zanzara; e di certo il fisico non gli è d'aiuto per intimorire qualcuno, ma percepisci che egli emana un qualcosa di folle e inesprimibile. Qualcosa di sotterraneo, da cui guardarti. Poichè se discutendo con lui comprendi che la sua mente è impostata come si imposta il linguaggio informatico, che per altro egli comprende assai bene, questo, ai tuoi occhi, lo rilancerebbe come più affidabile umanamente e meno incline alla bestialità pur aumentandone per contraltare, quella sua pericolosità percepita in prima istanza, dal suo semplice esistere e deambulare davanti a te. Ed è la gentilezza con cui lo accolsi, che si fa solido artefice a scardinargli la ritrosia verso i rappresentanti di quel mondo che pare egli giudichi con disprezzo, conquistandomi la sua benevolenza; e la battuta con cui mi saluterà abbassando il finestrino della vettura nel congedarsi non fa eccezione a quello che ho espresso <<...ehi...non credere che questa vecchiaccia che mi è venuta a prendere... sia mia madre...!?...>>. 
       

giovedì 23 gennaio 2014

duecentoquarantasei

 - la vacanza itinerante -


La notte a Venezia, col buio a passeggiare tra le calle, osservando gli angoli dei bar camminando su e giù dai ponti; la ragazza di Villach al mattino: dolce e ingenua negli occhi limpidi e attillata nei jeans con quel fondoschiena strepitoso; l'allarme antincendio a rompere la quiete, con le camionette dei pompieri che escono dal garage dietro la chiesa che svetta bianca sulla motta e il melo accanto che nelle radici vede i propri piedi riva al fiume Inn, in questa zona di Passau, con il Donau più in là che s'incontra col Danubio; la giraffa tra gli alberi di alto fusto, gli elefanti da lontano vicino al muro, e la panchina presso la staccionata del minuscolo acquitrino con una bocca che addenta un panino allo zoo di Monaco ordinato nella sua consuetudine selvaggia, dove nella gabbia e poi all'interno dietro la vetratra i due drill si rincorrono sino a che il maschio nero blocca la femmina minuta sul soppalco: si accoppia con nonchalance guardando i turisti senza interesse, mostrando alcuna espressione ma serietà e proprietà, in quell'atto scalmanato, suscitando le risa degli adulti e le domande dei bambini; e la fuga dal porto di Lindau sul lago e quella tra le montagne di Dover dove il lusso è stucchevole debordando dai sensi: e per rimanere intaccati; i luoghi di preghiera nel campo di concentramento di Dachau: Cristiana, Ebrea, Protestante, Russa Ortodossa e la in fondo il convento delle suore dalle fattezze teutoniche, che si animano nella messa in lingua germanica ogni giorno, per quei detenuti che non esistono più, rimossi dalla vita, ma non dalle preghiere e non dalla storia che ricorda l'orrore di cui è capace l'uomo; la giovane donna sul piazzale ghiaioso, e quella seduta sul muretto che controlla le proprie scarpe dietro gli occhiali da sole; la metropoli di Zurigo nella bellezza delle sue sopraelevate con la frenesia ovunque dei semafori nel rosso, ora giallo, e vai col verde, tutti luminosi a rompere la notte attraverso le loro note indicando il momento di passare oppure no; il lago di Lucerna e il militare che con i commilitoni nella passeggiata motteggia allusioni sessuali guardando le fanciulle incrociandole; e la chiesa protestante li nella nicchia superata una scalinata dove c'è quella piazzetta e il bar all'aperto: apri il portone idraulico ed entri sedentoti tra i banchi; Friburgo nei graffiti colorati da contraltare al ferro battuto della ringhiera del ponte sul fiume, con qualche guglia che noti essere immersa nel traffico di palazzi, finestre, angoli; più a basso le vetture in fila, pedoni, ciclisti in gim-cana e fermandosi: premono il pulsante del passaggio pedonale; il cartello che indica la foresta nera millenaria è in curva e c'è anche quello con il lago Titisee dove alla reception il ragazzo col caschetto biondo e i muscoli scolpiti assomiglia alla Jungen Hitleriana, col suo collega che mostra un tatuaggio presumibilmente corrergli su tutto il corpo, se arriva ad alcune parti del viso; mettendolo a fuoco il disegno si traduce in filo spinato, con in fronte un simbolo celtico di un'ascia stilizzata: tra quegli occhi azzurri e tranquilli il naso fermo e il garbo mite. Quando me ne vado lo vedo attendere seduto, alla reception che il suo collega lo raggiunga; Strasburgo caotica, ostile, ad ogni automobilista; Colmar sul fiume e la giovane minorene smorfiosa con quel saluto seducente ad un uomo cinquantenne; Basel, Basilea, Bale, di nuovo ad oltrepassare uscendo da uno Stato entrando in un altro; Olten, Aarau, Lenzburg, Niederlenz, e il giardino dietro la chiesa protestante dove riposa la zia Ermide e lo zio Hans sotto quella lapide con incisi i nomi; il lago di Neuchatel che impressiona essere celeste come il colore del mare in Sardegna; Montreaux dove non c'è un camping libero se il periodo è quello del festival jazz e allora a pochi chilometri Yvorne e la sua piscina con le nuotate, i tuffi, la parete rocciosa poco distante e perpendicolare alta centinaia di metri che copre il cielo, l'ago di pino nel caffè, con la coda dell'occhio individuo una spalla di carne bianca sfuggente e tatuata, la catena montuosa innevata e l'Italia dall'altra parte; il traforo del monte Bianco, e poi i lavori in corso e i tubi rossi flessibili sparsi sui sassi nella valle dopo il confine: ce ne andiamo per raggiungere la Versiglia. Superando la valle d'Aosta, il Piemonte, la Liguria, guidando verso Genova entrando e uscendo dalle sue gallerie, vedendo paesaggi da vertiginose sopraelevate: raggiungiamo la Versiglia <<...Papà...questo posto non mi piace !...>>...<<...non ti piace ?...la Versiglia non ti piace ? >>...<<...no...mi fa schifo! >> <<...mi piaceva Venezia !...>>. Fine delle vacanze.                   

mercoledì 22 gennaio 2014

duecentoquarantacinque

Atmosfera

culla 
   a
   r       
 c          
u           
a         
t     
     a 
                            la luna: riluce.
         Partoriente                                  
                             l                                      
    a      
        s     
     f  
    e 
r  
  a            
                                 nell'ombra;                         
                                                                                        a Venere 
                                                                                          rivolta.
       Tersa nel
                                               blu cobalto la notte:                                      
                                               mai così rassicurante.                                     

domenica 19 gennaio 2014

duecentoquarantaquattro

 - una giornata ordinaria di festa con Wharol e Pollock -

...il cruscotto nero in plastica. L'utostrada illuminata dalla giornata. Il volante stretto dalla mia mano. Il parabrezza. Dietro cui guardo il mondo. In silenzio mentre guido assorto nei miei pensieri, col rumore sottile e frenetico di sottofondo del motore lanciato a 100 chilometri orari. Non ho fretta di arrivare. Le vetture mi superano in corsia di sorpasso. E nel farlo: mi vedono  nella corsia di mezzo a velocità di crociera. Li guardo. Superarmi. Lanciarmi un'occhiata breve. Accendo la radio; il segnale è disturbato: la spengo. Mi riconcentro sulla strada e sui miei pensieri; ri-osservando il frenetico circolare dei camion sulla corsia di destra; alcune vetture distanti e molte altre che veloci transitano sulla corsia di sorpasso.  C'è un autogrill a cui non mi fermo; guardo la campagna per lungo tempo distraendomi dalla guida. Giungo alla barriera del pedaggio. Cerco il pittogramma con l'omino che consegna il danaro. Mi metto in fila assieme ad altre file parallelle con altri automobilisti che nei loro abitacoli: chi è in ascolto del programma alla radio, chi è al telefono cellulare, chi abbassa il parasole usando lo specchietto per rifarsi il trucco, chi cerca la moneta, chi da un bacio casto a chi si fa baciare tutto infagottato sul seggiolino. Pago il pedaggio, consegnando ad una mano che si avvicina al finestrino, il danaro che mi indica il display. Entro in tangenziale alla periferia della città. Mi ci vogliono altri tre quarti d'ora di strada per vedere le possibili uscite per il centro. Tutte intasate di veicoli in coda, che supero cercando l'uscita più conveniente e agevole. La trovo dopo una curva, superando la fila di vetture in coda, immettendomi e percorrendo la corsia di emergenza per qualche chilometro. La periferia della città dà un senso di caligine e di smog ed è animata da una miriade di finestre di case popolari, e dal disordine urbano; da cose inutilizzate: abbandonate, dai tram che arrivano in lontananza e le persone sotto la pensilina che lo attendono; dal maccanico in tuta e cuffia in lana che guarda dentro il cofano alzato, e la signora che un po' più distante gli parla del problema; di semafori che lampeggiano in angoli puliti e dedicati a qualche monumento dal nome dimenticato, mentre una ragazza giovane aspetta qualcuno che la deve venire a prendere; una vettura svolta a sinistra percorrendo il ponte del naviglio; una coppia giovane passeggia sul marciapiede col passeggino fermandosi all'incrocio, davanti le strisce pedonali. Svolto. Seguendo il cartello che indica il centro.Il cartello indicava il centro, ma arrivarci è difficoltoso. Sensi unici; corsia per il taxi; vietato svoltare di qua; vietato di là; provo a parcheggiare davanti ad un negozio: non ci sto. Entro in un parcheggio sotterraneo. Guardo l'ora: le 12. M'incammino a piedi in una baraonda di persone che fanno acquisti, che consumano al bar, che guardano vetrine, che salgono e scendono dal filobus,. Passo davanti al palazzo della camera del lavoro stile ventennio; edificato nel 1923 come dice la targa che leggo; più avanti sulla sinistra il palazzo di giustizia, possente e solido, con la scritta giustizia in lettere romane - givustizia - e la foto enorme del magistrato Borsellino. Di fronte; due edicole munite di ruote con vetrina piene di libri in vendita. Mi fermo. Sento l'edicolante che nel discutere con un cliente gli fa <<...ma chi legge ormai ? oggi non legge più nessuno...! >> Sfoglio un libro di spiritismo, e uno di parapsicologia. Vedo una chiesetta poco distante decentarta dal traffico in un vecchio angolo della città. Mi c'infilo. Leggo il nome - S. Pietro delle Gessate - Il sacerdote legge un passo del vangelo. I fedeli sono pochi, eleganti, compunti, nei loro abiti invernali. Esco e da lontano vedo le guglie del duomo. Entro in un bar per mangiare qualcosa. Guardo l'ora: le 13. L'appuntamento è per le 14, 30. La mostra a palazzo Reale apre a quell'ora...             

duecentoquarantatre

 - memento -

nel recto della cartolina: davanti al monastero un masso tondeggiante che in alcune umide depressioni ha del muschio verde. La campana del monastero pende, poco sotto il tetto spiovente come fosse la lettera V rovesciata. Il monastero pare un umile borgo contadino semplice e costruito per il ricovero di ovini al pascolo. Due querce sorelle danno l'impressione di un grande sollievo ombreggiato. Color giallo di un rinsecchimento è il paesaggio erboso che sfodera colonne vertebrali di grosse pietre rocciose. In primo piano ci sono alcuni cardi; in cielo alcune nuvole nomadi. L'immagine lascia una sensazione di sandali di cuoio, e di escoriazioni alle ginocchia.

Verso:    8 agosto 1992    Koroni  ( Grecia )

stanotte abbiamo dormito in un camping poco prima di Koroni. Ci siamo accampati molto tradi, erano circa le 11,30: dopo aver mangiato due pizze. Saranno state le pizze non digerite, la stanchezza di una giornata passata in macchina, lo stress di dover montare la tenda a quell'ora di notte con la pila e mille fraintendimenti; che ci siamo litigati,anzi no. Se penso bene, la causa scatenante sono state le mie Nike. E i miei piedi dentro a macerare per tutto il giorno a stmolarci, si. E' stato così prima di coprirci col sacco a pelo, ci siamo coperti d'insulti. Morale. Lei ha dormito in tenda e io fuori. Con l'incessante ronzio di un paio di mosche che continuavano ad atterrare e a decollare dal mio alluce. Mi sono addormentato sereno. Alzandomi molto presto e andando al bar che a quell'ora era ancora chiuso. Riprendo a leggere - il consiglio d'Egitto - di Sciascia, per lungo tempo, e dopo vari intermezzi: uno dei quali. Scorgo una figura femminile sulla battigia, che seguo in lontananza prima con gli occhi e poi camminado credendo: che fosse Lei alla mia ricerca. Visto che per leggere mi ero allontanato dalla tenda; e l'ho seguita immaginando che forse, anche Lei a sua volta, mi avesse scorto da lontano e fingendo, desiderasse svelenire la discussione della sera precedente giocando al gatto e al topo. E continuava a camminare allontanandosi da me, e a quel punto ho accelerato il passo sino a ritrovarmi a correrle dietro per poi perderla dalla visuale un istante, e poi per sempre tra tutte quelle persone. Credendo di scorgerla nell'entrare in un camping in lontananza. Ritorno in tenda e Lei era lì, sveglia che mi aspettava. <<...mi hai cercato ?...>> <<...no...!...>>. Siamo ripartiti alla volta di Koroni. 

sabato 18 gennaio 2014

duecentoquarantadue

- memento -

il recto della cartolina è divisa in quattro mini riquadri. Che raffigurano: a destra in basso un teatro greco conservato bene. A sinistra in alto un tempio con i capitelli riversi a terra e le colonne che sembrano ceppi di marmo nell'area del nao e pronao. La stessa immagine in alto a destra è ripresa da un'angolazione diversa e in lontananza. Si notano sullo sfondo alcuni cipressi svettare. In basso a sinistra un paesaggio rigoglioso presumibilmente primaverile si distinguono alcuni nuclei di case lontane, che dovrebbero essere il paese di Ithomi, com'è scritto nella fascetta centrale della cartolina. 

sul verso c'è la data   10 agosto  1992 Grecia

pomeriggio dedicato al girovagare in macchina attraverso lingue di asfalto. Il continuo frinire delle cicale immerse tra gli ulivi e le sterpi dai colori polverosi e soffocanti rende erotica l'atmosfera mentre siamo alla ricerca di siti archeologici. In questo cercare girovagando, mi vien voglia di fare l'amore. Comunque qualcosa troviamo. E saliamo sulle mura di Ithomi per visitarle. Dove un vento robusto e persistente ha dato un tocco magico ed epico alla nostra scalata tra i blocchi di pietra. Disseminati tra la vegetazione rinsecchita. Ci fermiamo in un bar, ricavato da un'abitazione di piano terra, e dal tavolino guardando in lontananza il paesaggio solitario di mura, massi, bassa vegetazione alcune abitazioni, arrivando alla bruma dell'infinito; sorseggiamo due caffè alla greca servitoci dal nipotino della barista molto anziana; e vestita a lutto con il fazzoletto legato al capo e mosso dal vento. Terminati i caffè, abbiamo ritrovato la volontà di proseguire nella nostra ricerca di altri ruderi dai cenni storici; e ci siamo avviati nella speranza di vedere un anfiteatro che era segnalato sulla guida; che però non abbiamo mai trovato: o forse si. L'avevamo trovato alcune ore prima: ed era presumibilmente quello che avevamo visitato dopo aver svoltato una laterale; nello spiazzo di una buca enorme per metà circondata da alberi d'alto fusto; prima di Megalopoli c'era questo anfiteatro in cui non trovammo nessun visitatore. Scendemmo dalla R4: c'eravamo solo noi e l'alito d'un vento caldo sulle orecchie. E allora l'ho presa per mano e l'ho fatta sedere; come fosse una spettarice dell'anfiteatro, e ho inscenato alcune gag comiche da mimo un po' fesso e un po' cretino. Lei rideva come una pazza.      

duecentoquarant'uno

- memento - 

il recto della cartolina fotografa un ulivo in ombra a destra, a sinistra sullo sfondo tra pietre e ciottoli circondato da un paesaggio brullo e desolante un tempio greco; nel cielo azzurro alcune nubi di passaggio. 

sul verso è scritto: Bassai ( città di Vasses in lingua greca )  7 agosto 1992

dopo un risveglio tumultuoso  nel camping di Tholo sulla costa ionica del Peloponneso, siamo partiti alla volta di Vasses, inconsapevoli delle condizioni delle strade greche in alcuni tratti del percorso. Trentuno chilometri sterrati e dissestati con buche di varie dimensioni da evitare per non avere problemi alle sospensioni del R4. Alla nostra destra un paesaggio poco rassicurante di burroni e strapiombi: la strada è senza guard rail o muretto a secco qualche pietra messa li a marcare il termine della strada. Lasciata la strada tortuosa e minacciosa, siamo scesi in una valle e tra un piccolissimo aglomerato di case, ad un bivio mi fermo per leggere un cartello segnaletico sentendo un colpo di pietra raggiungere il portellone della vettura. Mi volto in direzione del colpo ricevuto.Vedo più in là, nascosto dietro l'angolo di un muro, un bambino con i capelli scuri, che guarda la nostra reazione. Riguardo il cartello davanti a me, pensando che con quella pietra mi hanno dato il - benvenuto - innesto la marcia; e dopo pochi chilometri, curvando ad una salita, troviamo un tempio greco ricoperto da un tendone come quelli da circo, a protezione di chi ci lavora per farne la manutenzione. Scendiamo dalla R4 a visitare il luogo desolato. Nessuno tranne noi: una cattedrale nel deserto, la frescura dell'ombra e delle pietre del tempio, e la calura afosa e polverulenta dell'aria al sole. Proseguiamo per Karitena dove ad una trattoria ordiniamo due insalate greche, due birre, una omelette, e uno spiedino per la cifra di 1660 dracme, circa diecimila lire italiane.      


venerdì 17 gennaio 2014

duecentoquaranta


- la nebbia -

La centuria romana formata da dieci contubernia allienate improvvisamente, sbucò. All'alba. Dalle nebbie della campagna marciando, e formandosi da grumo, ammasso, gruppo, a uomini delineati via via avvicinarsi, in quel marciare cadenzato. E ritmico di minaccia possente che incutono i guerrieri milites sotto l'elmo opaco e poi lucente ai raggi del sole. Indossando l'armatura di piastre sovrapposte, cingendo alla destra il gladius, con sul braccio sinistro lo scudus rettangolare fissato da una maniglia in legno al palmo della mano. Ordinati, imperterriti, marziali dietro al centurione che a cavallo avanzava, di fianco a signifer col portainsegne, e il tessarius poco distante e responsabile delle parole d'ordine. E uscendo dalla fumana; da dove giungevano il centurione al comando vedendo il chiarore, levò il braccio intimando l'alt alla truppa <<...aaaaaaaaaaaalt!...>> ( aaaaaaaaaaaaaaaalt...! ) La truppa si fermò. E così il rumoreggiare di quegli uomini in armatura. Il tessarius si avvicinò al centurione. I due cavalli si annusarono brevemente il muso, mentre i due miltari si parlottavano. Il tessarius si staccò dal centurione per avviarsi galoppando in avanscoperta in direzione. Della donna. La quale terrorizzata da quella figura maestosa che stava per sopraggiungere, rimaneva ammutolita nel vedersi il soldato romano a cavallo avvicinarsi e chiederle <<...excusate me no potest indicare exercitus Titus ubi quod habemus in occursum ante Gerusalemme ? >> ( scusatemi ci può indicare dov'è l'esercito di Tito che ci dobbiamo incontrare a Gerusalemme ? >> ) . La donna ascoltando paralizzata le parole del miliare; impaurita e alla guida della sua utilitarietta abbassò il finestrino con la manopola gnic gnic in fessura rispondendo <<...eehhhhhhhh? ...che hai detto ?...>>.       

duecentotrentanove

- Castor Fazil -

Castor Fazil in questi giorni estivi di molto tempo fa, lo avresti trovato sotto il portico di fronte alla vetrina del negozio. Seduto sulla sedia in quella sua mise preferita fatta di ciabatte infradito e calzoni lunghi dozzinali a scacchi. Di tessuto leggeri da sembrar fatti di nulla. Castor Fazil stava seduto sull'arancione ergonomico della sedia in plastica. A fumare una sigaretta. Dietro le altre che ancora bruciavano, di rigagnoli nerastri e aerei tra le decine di altre cicche ripiegate, alcune ancora accese nel posacenere di vetro, riposto sotto la sedia tra i piedi con le dita nude e le unghie spesse e opache. Castor Fazil accavallando le gambe pareva facesse la guardia snob a quelle opere in mostra, con quella sua struttura fisica con cui si contraddistigueva nel sembrare un molosso vestito da umano, senza guinzaglio nè padrone e il volto poi. Da uomo di Neandhertal intelligente, che tra sè va pensieroso di follie. Sedate davanti al negozio. Tramutato in galleria espositiva per l'occasione dove in una collettiva esponeva le sue opere. Pensieroso di soliloqui in questa sua seduta presso l'entrata dove nessuno entrava e nemmeno usciva; Castor Fazil guardingo, con i propri fantasmi benigni e maligni rivolgeva il volto al cielo a volte; e con quei fantasmi elucubrava le analisi a cui era giunto e su cui aveva riflettuto nel corso di molte notti steso sul letto. Giungendo a degli intrecci che in altri tempi, sarebbero divampati in chissà quali paranoie, e ora invece chiamava a raccolta quei suoi fantasmi vestiti come a carnevale da angeli e demoni, ma appena. Gli angeli e i demoni capivano di cosa si trattava; via che filavano ad ali spiegate pur di evitare i suoi soliloqui. Lasciandolo solo a guardare il cielo, tranquillo; in quel viso. Che avresti visto nel passare davati al negozio. Viso dominato da dolcezze rudi, con quella lingua spessa e perennemente assetata che lo marca e lo svela. Lingua dominata da farmaci, i quali viceversa non ci fossero; lo renderebbero folle nell'esprimere impetuosamente quelle verità. Che sente indemoniato; conservandole, poi cestinandole appallottolate, riprendendole e dispiegandole di nuovo brandendole come fossero una spada, ma con grazia, non comprendendo come tali verità non siano comprese nella loro essenza; da chi lo ascolta: giudicandolo. Folle. E come un tempo ciò che egli visse, lo esprime ora così sulla tela senza filtri; i dolori che la vita gli ha elargito negli ostacoli. E se qualcuno lo vedesse lì, seduto su quella sedia Castor Fazil lo sa. Costui lo giudicherebbe, malato nella mente sebbene, proprio dalla mente egli raccolga l'energia espressiva attraverso cui modella le sue opere. Si dice tra sè Castor Fazil: <<...quanti artisti possono essere malati mentalmente masticando sofferenze e poi mostrare di essere pieni di creatività attraverso quelle sofferenze ?...>> ? La sofferenza di Castor Fazil, fisicamente lo ha reso gobbo ma forse la sofferenza non centra in questo; ed è l'afflizione che lo ferisce sulle spalle con quel peso inenarrabile. E in questo cogitare Castor Fazil stava seduto e con la sigaretta premuta tra le dita ingiallite dalla nicotina, sulla sedia sotto il portico vuoto a quell'ora del pomeriggio pieno di calura. Giunse un uomo; con una sporta della spesa tra le mani, a penzoloni, gli passò davanti rallentando e salutandolo vide dal vetro alle spalle di Castor Fazil: le opere esposte sulla parete della galleria. Entrò. E dopo averle viste attentamente; vide il quaderno delle presenze e firmò aggiungendovi a fianco una dedica: ...a Castor Fazil artista col martello; un minuto prima e un minuto dopo, sulle lave del Big Bang...             

duecentotrentotto

Una delle regole dello scrivere, e che ad un certo punto mi ha assalito, è stato quello di descrivere dei personaggi che normalmente vedo; che incontro, che conosco direttamente oppure no, ma che per farlo sono tenuto ad inventare dei nomi per tutti costoro. Garantendo così riservatezza, dovuta e necessaria a salvaguardare la privatezza cui ognuno ha, senza che alcuno possa macchiarla per alcuna ragione. In questo modo, che pare essere lontano dalla verità reale, ottengo una maggiore libertà personale di descrizione, e che spesso va oltre alla persona che vorrei definire, inventando di sana pianta normalmente e seguendo la fantasia, trasformando ciò che volevo descrivere in semplice musa ispiratrice ( rendendola eterna ) con una descrizione non affatto vicina alla persona che volevo descrivere inizialmente, ma paradossalmente significativa come se avessi colto l'essenza di quella persona, solo vedendola attraverso il prisma d'un gioco creativo che tende a evocare. Le persone dunque, ma non solo le persone, bensì tutto ciò che vado a descrivere con la fantasia è oggetto di cambiamento nello stesso momento in cui si trovano sotto l'occhio della mia creatività e i personaggi che troverete qui descritti sono soggetti a questa personale prospettiva reale e fantasiosa.  

duecentotrentasette

- la nonna di Little Shango era comunista -

All'alba del capitalismo sfrenato, dove la stortura concettuale divenne regola e l'apoteosi dell'idiozia sdoganata dalle televisioni; nel regno dell'ortodossia dei pensieri menomati dei filosofi che non intervengono, non indirizzano, non influenzano, non significando nulla e con nulla da fare, tranne essere corrotti dall'ignavia e dall'inesperienza; simili ai politici irriverenti di fronte alla miseria umana ma ossequiosi all'entrata delle banche, e degli interessi dei banchieri; con i v.i.p a tavola, nei summit, sugli yacht d'estate, che compaionio sui rotocalchi, sugli schermi delle televisioni; assieme alle donne di gran classe o di poco conto, che non mancano mai da nessuna parte sin dalla notte dei tempi, come il pomodoro sulla pizza, anche loro sdoganate. All'alba della nascita di un soggetto nuovo nella realtà quotidiana definità modernità o contemporaneità, chiamato - spreco - con i suoi fratelli - sperpero - lusso - eccedenza - sfruttamento - nuovo schiavismo - degli indigeni, e non solo di chi è di pelle nera ma di tutte le razze. All'alba della sfiducia nei confronti della fiducia, e di un mondo; non uguale e diverso a cura di Satana vestito da nobile legittimo, nel consueto stile di coprir gli occhi di ciascuno, indirizzando nel piacere sorridente di reati, irridente con al collo un cartello e la scritta - nel proffitto ne approffitto -. Little Shango di professione uomo; credette di poter raggiungere ogni obbiettivo che si fosse dato, pronti sugli scaffali dei supermarket o dei negozi di prossimità o in franchising, attraverso la dilazione dell'acquisto degli acquisti, che lo avrebbero reso debitore e dunque schiavo vincolato per anni a venire, ma individuo sensato e pieno di senso comune nel concetto aureo e moderno del tempo che viveva - libero di possedere -. La nonna di Little Shango ex staffetta partigiana ed ex amante di un militare nazista disertore divenuto combattente delle brigate partigiane di montagna, felice gioiosa di quel suo passato di guerra e amori, comunista, amante di Lenin, Trozsky, dell'anarchico Bakunin, con il santino in borsetta di Svetlana la figlia di Stalin, e dello stesso Stalin conservava il rosario di proiettili da sgranare sulle parole dell'internazionale comunista ogni volta che c'era da leggere il contratto con la banca, di una polizza, dei bugiardini dei farmaci, o che ci fosse da mostrare una tessera se fidelizzato o no, insomma per una qualsiasi cosa. Bene. Un giorno la nonna di Little Shango sentì che era arrivata la sua ora; tutti si allarmarono mettendosi in opera per chiamare il dottore. La donna a quel trambusto di chi andava di qui, e di chi andava di là, in un momento di lucidità capì che quella era la sua ultima ora e che i parenti avrebbero tentato di salvarla esclamò <<...no...fatemi morire vi prego...>> al chè, i parenti tutti si fermarono: e la nonna riprendendo fiato continuò  << ...si... fatemi morire...che solo se muoio...non ci perdiamo di vista !...>>.         

duecentotrentasei

...che voglia di fuggire, licenziarmi dal lavoro, e andarmene col camper. Tentando di vivere con quello che riuscirei a racimolare dal mio conto in banca e dalla liquidazione fine rapporto; pensando: che potrei vendere anche delle mie cose: abbigliamento ne ho sin troppo, e me ne posso sbarazzare a prezzi bassi ( ma se dovessi decidere di cambiare vita e di rinunciare a tutto prevedendo che questo sogno si possa realizzare, son sicuro che l'euforia mi farebbe regalare molto di questo abbigliamento )  oppure potrei vendere i libri che ho già letto; (( e sempre ricordo, e ricorderò per sempre, che un venditore di libri a Milano una volta gli sentii dire scherzoso a un'altra persona << ...ma chi legge più al giorno d'oggi ?... >> e molti li prenderei con me: se non li ho ancora letti, ( guardo la copertina annuso il profumo di stampa e di carta: e sento intimamente e misteriosamente di amarli )) e poi perchè no ? potrei arrivare a fare l'elemosina se le cose si mettessero male, e se tentando di fare qualche piccolo lavoro non fosse sufficiente a vivere; ( ma che razza di piccoli lavori potrei mai fare, se fossi, e vivessi come un barbone ? lavo i vetri ai semafori ? faccio rifornimento alle vetture al self service ? sperando in una mancia per aver alleviato l'automobilista dall'incombenza di farsela da sè ? tz mica posso arrivare in camper e chiedere alla vecchina in giardino << ...le do una pitturata alla staccionata ?  le metto in ordine il garage ?  le vado a far la spesa ? >> )   una cosa è certa: dovrei fare attenzione alle spese del gasolio e dell'autostrada, se mi mettessi a girare avanti e indietro per l'Italia (( ma andrei in Francia e precisamente a Saint Marie de la mere in Camargue dove ci sono gli zingari e il mare ( tentando di rimanerci scegliendo un posto sicuro dove parcheggiarmi ) e non per autostrada ma per provinciali che rispetto alle provinciali Italiane somo molto meglio))   e soprattutto come farei a rinunciare al computer portatile e alla scrittura se avessi raggiunto il punto G del vivere ?  anarchicamente ? come desidero da una vita ?  come farei a restare lontano dalla tentazione di scrivere ciò che mi passa per la mente ? se la mente a quel punto fosse nell'idea libera da convenzioni e da rapporti, in una sorta di alveo colmo di purezza ? E comunque dovrei trovare equilibrio a delle contraddizioni quando vi fossero, e ci sarebbero per esempio:  sarei costretto a nascondere il camper se fossi nella necessità di fare l'elemosina (( potrei fare il barbone si, ma non s'è mai visto un barbone che sale su un camper da 50000 mila euro con parabola, e computer dentro, e il bagno con la doccia e tu vedessi la cucina e le biciclette e tutti quei libri e fogli stampati ( a proposito: la stampante: sarei costretto a portarmi anche la stampante )  e che se ne va a zonzo; ma mica siamo in America che uno è veramente libero di essere e fare come vuole )) Però; allo stesso tempo so: che se si realizzasse tutto questo; e rimanessi in contatto col mondo attraverso la scrittura e le foto come un free lance della narrativa contemporanea attraverso piccoli contributi in forma di brevi schizzi di parole nei racconti in prosa, o nelle poesie, mi mancherebbe mio figlio. Poichè se lasciassi il mondo per viaggiarlo, andandomene come è mio desiderio, non potrei essere più d'aiuto per lui, condannandolo alla solitudine. Così attendo di morire, stanziale e iroso per questo desiderio che rimarrà solo un desiderio dai connotati della fuga, tentando di sopportare ogni angheria o ingiustizia perpetrata a mio danno, lieve di poca importanza e di sciocca entità, se come spesso avviene, è subita dagli ultimi, come io mi trovo ad essere...        

mercoledì 15 gennaio 2014

duecentotrentacinque

 
- la partita di calcio -
 
Fu detto che quella domenica scorresse per lui normalmente. Si alzò tardi. Pranzò. Indossò il paltò, il cappello, e usci dalla porta di casa. Aprì l'ombrello per quella fastidiosa pioggerellina invernale che scendeva fitta, inconsistente: si avviò. Verso lo stadio a piedi. La squadra era stata costruita per vincere, e lo scontro con la squadra ospite era importante. Pagò l'entrata e prese posto in curva come sempre. Lì in angolo, dove la seduta di cemento termina e la rete metallica, chiude. Con l'ombrello aperto; in quell'angolo dove il vento soffiava giù per il corpo se non alzavi il bavero del paltò, vide la sfida. Seduto e fermo. La partita terminò, e la folla si indirizzò verso l'uscita. Egli aspettò, che la ressa si smagrisse, per uscire, rimanendo seduto sotto quella pioggerillina che non aveva dato tregua per tutto il pomeriggio, ora tramontato. La croce rossa entrò spedita allo stadio, rallentando in curva e accelerando verso gli spogliatoi dove la rampa delle scale sale in curva. Gli infermieri corsero salendo rapidamente e una volta svoltato l'angolo videro l'uomo rigido, seduto con l'ombrello aperto, immobile col viso rivolto al campo: gli occhi vitrei. Gli si avvicinarono. Si disse che fu infarto fulminante; nessuno se ne accorse. Nessuno vide la morte nera in volo; virare col pastrano di bitume e scendere con la falce sradicandogli il cuore e portarlo alla bocca volando via. Lasciandolo lì rigido davati alla rete metallica, mentre in campo la partita continuava.   

martedì 14 gennaio 2014

duecentotrentaquattro


 - la donna della via Emilia -

La fine della guerra vide la via Emilia, all'altezza della città, intasata di persone; che festeggiava e applaudiva i carri armati degli alleati che passavano in rassegna. La bambina sul ciglio della strada aveva gli occhi sommersi in migliaia di persone felici ed entusiaste che volteggiavano davanti a lei in saluti e schiamazzi di giubilo rivolti  alle torrette dei carri armati, dove i mezzobusto dei giovani militari americani; entrati in città come vincitori e liberatori, gettavano caramelle e chewingum in segno di vittoria: i primi chewingum che la bambina avesse mai visto. Erano stati i liberatori a portare i chewingum; <<...veramente...>>. Disse la donna anziana, che ora cresciuta, si ricordava di essere in quella bambina sul ciglio della strada con la propria nonna, a guardare quelle immagini; e con la telecamera dei ricordi si soffermò a sorridere; nell'aggiungere che vi era una donna tra quelle persone che le chiudevano la visuale, se lei era così piccola e gli adulti erano così grandi attorno a festeggiare: una bella donna, che salutava con smania l'arrivo delle truppe americane festeggiando e acclamandoli con applausi, lanciando frasi di amore e baci, a quei bei ragazzoni americani lasciando che il proprio seno debordasse sul petto, e le grazie dei fianchi si muovessero in evidenza; e a quello spettacolo di festa e applausi assistevano alcuni uomini vicino alla bambina, quando uno di costoro nell'applaudire gli alleati, si volse in direzione degli amici a fianco e guardando lo spettacolo entusiasta della donna: disse ... <<...faceva così anche quando arrivarono i fascisti...!...>>.    

domenica 12 gennaio 2014

duecentotrentatre

- la piccola donna -

La piccola donna col vestitino adeguato ad uscir di casa, dava la manina stringendo quella della nonna vestita a lutto perenne, in quella passeggiata che spesso avveniva tra quelle vie cittadine: e per mano entrarono al cimitero. In una sorta di ritualità, in quella visita che puntualmente tutte le settimane la nonna compiva, attribuendolo alla santità dell'amore che aveva condiviso con l'uomo che aveva sposato e che ora riposava lieve in terra: raggiunsero la lapide, e la donna anziana depose i fiori nel vaso ai piedi della tomba. Lasciando libera la bimba. Di osservare le altre di tombe, tra quei sentieri sassosi, mentre lei assorta in preghiere e ricordi si concentrava; in quella postura in ginocchio recitando preghiere per il defunto. La bimba leggendo gli epitaffi di tutte quelle lapidi; tornò dalla nonna che nel frattempo si era alzata dalle sue preghiere per innaffiare i fiori: le chiese <<...nonna sulle lapidi c'è scritto che qui giace... e che è stato bravo, ed è bravo anche quell'altro, ed anche quell'altro..e allora... questo è un cimitero dove seppelliscono solo i buoni...! ...ma i cattivi...dov'è il cimitero dove seppelliscono i cattivi ?...>>.   

duecentotrentadue

...oggi per la prima volta dopo molti anni che scrivo, non so scrivere. Non mi vengono i pensieri; che s'interrompono nel momento che cerco di ordinarli sulla tastiera. E dopo tanto tempo sento la fatica di dover ingegniarmi per poter scrivere; non muovendomi più da casa e non avendo esperienze da raccontare in diretta; e nemmeno le esperienze passate e che necessitano di uno sforzo riesco, come ho detto a ordinare sulla tastiera. Sta succedendo quello che immaginavo potesse succedere da un giorno all'altro. Mi sono seccato. Portando con me una nostalgia che s'indurisce sul pomo d'adamo, ma non posso farci nulla. E di tutto questo sono stanco. E smettendo di scrivere me ne libero...

ultimi giorni di dicembre 2012