domenica 23 febbraio 2014

duecentossantanove

                                                     
                                            Corsica   8 luglio 2010

Il sentiero che si delinea sotto le nostre figure umane è spento di fuochi rugginosi d'aghi di pino; sulla terra, su cui riposano emanando una lieve fragranza di suoni all'aria, modulati al nostro calpestarli pesantemente o leggermente: passiamo, nutrendo silenzio dopo ogni respiro esalato presso i nostri sguardi, alla ricerca delle cascate; superiamo un ruscello dalla dignità di fiume punteggiato di rocce invetrate di verde nell'acqua gelida; vedendo fluire galleggianti numerose pigne cadute dai rami degli alberi circostanti; e misuriamo la tortuosità dei passi che rimangono numerosi ma agevoli sul sentiero dentro questo bosco dentro questa giornata che assomiglia alle nostre giornate di città più consuete d'inverno quando fumano di nebbie: qui tra le chiome assorbono la luce torcendola e ripropagandola d'un inconsueta magia; che ti fa sospendere il giudizio perverso d'ogni cosa, delineandone i risvolti più docili e amabili; che sostenta la sapienza d'ogni mirabile forma del sottobosco: un uovo di roccia sepolto sino alla vita e sul cui orecchio un fiocco di rami tramutati in radici si riducono preziosamente ad un grappolo d'uva come orecchino pendente; coniandolo a punto di riferimento naturale tra felci deposte a miriadi in minuscoli e leggiadri ombrelli; a proteggere la tappezzeria d'incanto del muschio grasso e fine nella sua estesa prolificità; congeniale al mondo sospeso di questi ombrelli, in aria e dai deliri remoti i quali richiamano un intenso acquerello oppure un oil canvas; e proseguiamo verso la meta sino al sopraggiungere dalla parte opposta di due donne dai modi trafelati; le quali ci informano che in prossimità delle cascate: vi è un toro. Che pascola libero. Al chè ci consultiamo in uno sguardo. E unendoci alle due donne, intraprendiamo la via del ritorno.     

sabato 22 febbraio 2014

duecentosessant'otto

                               
                                Camping California ( Corsica )   8 luglio 2010


Nel fervere mattutino la notte s'increspa di luce irrorata dall'occhio di sole, siderale e inarrivabile infuocato punto in cielo privo di forza nè calore; mi sveglio nel sacco a pelo. Guardando all'esterno lo scorrere d'innumerevoli zip delle aperure di ogni tenda; mani con la zip tra le dita che lasciano uscire il volto ad osservare. E ogni corpo su quel volto, si racimola le membra stropicciate nel fuoriuscire da ogni tenda dirigendosi verso i bagni; corpi ignoti che a passo deciso e cadenzati dal suono di ciabatte; si dirigono ognuno ad un proprio compito fiosologico ed estetico di restauro. Le posture sono tutte molto individuali: agili, meccaniche, legnose, indaffarate, precise, dinoccolate, smemorate, ipnotiche, col make up horror vacui in alcune signore, da campo di concentarmento per mariti con la pancia, da passeggiata agli inferi per bambini con gli occhi celesti e il corpo terreno, da incubo se c'è anche il cane che ti fa perder tempo mentre si gonfia la fila, da efficace e ottimista con la carta igienica in evidenza tra il beauty case e lo spazzolinio da denti, tutti hanno il minimo comun denominatore nel sapore visivo di ristagno tra le pieghe del volto. E il deambulare semincosciente dopo il suono della zip è un rituale che avanza sino ai lavabi tradizionali; dove c'è anche la scelta della turca; e il suono liturgico prevalente è lo scroscio, non delle onde del mare che dista qualche minuto; ma più prosaicamente dello scarico detto sciacquone; spesso seguito dal sonoro sbatter di porte in legno oltre i quali troneggia: la cloaca del water. Opera non scultorea, inerte, levigata e pura nella sua foggia eburnea, igienizzata periodicamente che attende mansueta: ora del giorno o della notte; che chiunque prima o poi lì sopra, si metta seduto.       

duecentosessantasette

 - la mattina degli anziani -

L'anziano con la dentiera e la bocca deformata dalla novità, sostiene le sue prospettive chiecchierando al tavolo con l'altro; anch'esso anziano e giovanile che indossa una felpa a tinta unita, il quale sfoglia pigramente il giornale  ascoltandolo; masticare parole nel proferirle debordando a ogni lettera suoni vestendoli eccessivamente, ma inevitabilmente con quella bocca: non si potrebbe fare altro. Un altro anziano in piedi: col cappello in testa e le mani giunte dietro la schiena, ascolta il sibilare dell'amico, osservando la barista a banco: la quale dandogli la schiena è intenta a preparare un caffè nella tazzina. Giunge a banco un avventore; la barista si volta acuendo l'attenzione sentendosi chiedere << ...mi fai un caffè ?...>> si affretta a mettere un'altra tazzina in macchina; spinge il bottone della preparazione; mentre spegne il bottone della fuoriuscita dell'altro caffè a fianco. L'avventore scompare sedendosi ad un tavolo. La tazzina viene tolta; messa sul piattino di fianco al cucchiaino e la bustina di zucchero. Che una volta messa sul piattino, si sente trasportare con tutti gli altri oggetti tintinnanti, per un tratto dalla barista, che raggiunge il tavolo; dove l'anziano in piedi la sta osservando; e l'anziano con la dentiera ha smesso di parlare, e guarda il suo interlocutore che con la pagina pomposamente sollevata sta immobile e concentrato alla lettura, mentre gli  risponde lentamente con noncuranza e sicumera, espletando un concetto basilare ed eterno che << ...aggiusta tutto il mondo...>>  come direbbe un amico. La barista in quell'istante appoggia il caffè tra i due anziani che discutono, i quali si fermano ascoltando la donna dire <<...ecco il caffè...>>. Costoro si guardano stupiti,  e uno fa <<...e chi l'ha chiesto ?...>>.

giovedì 20 febbraio 2014

duecentosessantasei

                                  Camping California  ( Corsica ) 6 luglio 2010

Scorre steso il filo da stendere; tra il collo d'un albero all'altro, d'asciugamani e teli. Arcuati, distesi e immobili di rettangoli a colori silenti; presso l'ossatura d'uno sdraio dal telo floscio tinta blu notte; unta da una minuscola forma assorbita, visibile dal tavolo da cui guardo; con fiori in plastica in un vaso, e una bottiglia d'acqua e un bicchiere. Il carosello d'insetti mi ronza attorno in notturna; costantemente suicida nel tentare d'innamorarsi del fuoco: di una lampada. Che uso per scrivere. Appesa all'unghio aguzzo di un tronco. E distante alle mie spalle sento l'abbaiare di cani; alzo lo sguardo cercando la luna; e distinguo migliaia di lampadine incandescenti tra cui quelle dell'orsa maggiore; mentre il ronzio di un insetto più grosso e temerario di altri planando mi assume la spalla: come pista di atterraggio. Guardandolo nella penombra che danza; essere noncurante ai miei occhi, nel farsi pulizia d'ali e zampette. 

    

mercoledì 19 febbraio 2014

duecentosessantacinque


 - il contadino e il suo destriero -


Nonostante sia inclemente il giorno rottosi nel firmamento da acquide finezze nuziali; al congiungersi con l'aria che la trapassa giungendo sui terreni appagandola nell'abbeverarli in santità: il contadino fitto di sguardi ai cieli si calibra di conseguenza modificando i propri piani; di lavoro sempre certi per quanto incerti; e col trattore che scoppietta di frastuoni discordanti e sbuffa; come nel far parte di una genealogia equina nuova e antica; sulla sella su cui siede, presso il filtro bianco posto in direzione del piede destro sul pedale il quale come un foruncolo sul crinale del motore sporge nudo; sterza il volante volgendomi lo sguardo, controlla il carro in coda; che va trainando a semi cerchio nella manovra che esegue, non tocchi di qui o di la. E finalmente entrato nel piazzale come un cavaliere uscito dal tempo antico e meccanizzato sul suo destriero, si piega in avanti tirandogli la leva del freno a mano. Spegne il motore e bivacca in sosta. Guarda attorno, scende accuratamente. E venendomi incontro noto il volto vivido e vivace dalla lirica del suo lavoro; le guance arrossate dalle intemperie gli esplodono miti e assorto e colmo di anni e gesti egli indossa la tuta lisa e pulita; mi annunzia come il  carattere possa essere verecondo nel folto del lavoro per lo più manuale che quotidianamente compie; ne sono la prova i calli sulle mani, una catena montuosa in miniatura che muove nella mia direzione; dando intensità alle parole che mi rivolge: ci ritroviamo a dialogare. E silente mi cattura l'animo, poichè ciò che dice m'isinsinua come una poesia vitale e d'interesse per il mondo odierno, da cui non si sente escluso nei ritmi, per quanto egli senta di esservi lontano; non rimproverandolo per alcunchè. Innesta la misura del rispetto e gioia nei riguardi di una meraviglia che gli pare semplice; e che il buon Dio è una certezza su ogni cosa; confermandomi di ottenere la sua felicità per quella strada intrapresa nell'intimo, foriera di conquiste e sconfitte; la percepisco esser proferita mestamente dalle sue labbra cruente assomigliano a carta abbrustolita. E parlando mi dice che le pere sparse su quelle biolche su cui tribola per guadagnarsi il pane son beccate dalle gazze; e che le ghiandaie son certamente peggio, se celermente s'involano non imprigionandole mai:  poi ritornano sul raccolto che di questo passo andrà marcito. E tuttavia nella faretra dello sguardo; questo contadino ha imparato ad apprezzare la furbizia o la stoltezza del regno di cui fa parte: arte di quel buon Dio che gli desta gli occhi di candore e di effervescenza; e sorride nell'illustrarmi i dettagli di quella caccia ai Corvidi, a cui vi attribuisce i valori di cui è sempre grato.           

martedì 11 febbraio 2014

duecentossantaquattro


 - Odulfo Barret -

Odulfo Barret lavora in pianura e lo puoi notare vedendolo nella sua altezza con cui raggiunge i due metri pesando almeno 130 chili; atleticamente agile nonostante la larghezza in vita risulta allo sguardo minaccia per chiunque; O.Barret è mastodontico nell'incedere e sicuro di sè; e lo vedi scendere a fatica dalla sua Citroen familiare color bordeaux; aprendo la portiera e cercando l'appiglio al telaio soprastante prima aggrappandosi facendo leva e forza per poi uscire con una spinta data alla schiena si erge in piedi: stagliandosi sullo sfondo a colosso. Si rimette in ordine i pantaloni extra large attillati; slacciandosi la cintura e riallacciandola O.Barret avanza enorme nella sua stazza dando l'impressione a chi lo vede d'essere di buon cuore dentro tutta quella carne e ossa che va spingendo con quelle gambe muscolose: e invece no. O. Barret è astioso, insopportabile per sè e verso gli altri; nelle public relation tenendo in particolar conto il modo con cui la fa intendere di primo acchito; per evitare problemi, che sia mai che qualcuno pensasse che O.Barret è uomo di buon cuore; ma se dovesse per errore pensarlo O. Barret lo guarda intensamente dal suo molteplice taglio d'occhi luccicanti come due diamanti incastonati sopra la barba incolta; costui cambia idea immediatamente. O. Barret ci tiene a far sapere che ama solo la sua donna, che rispetta essendo la sua metà non solo sentimentalmente, ma anche fisicamente; che lo sovrasta nello spirito combattivo e amorevole, decisa nell'amarlo in tutta quella sua possanza e forza: scontrosa come la campagna rumena da cui proviene Music Jolanda è la donna di O.Barret: si tinge i capelli, è carina, e parla benissimo l'italiano. O. Barret quando c'è lei, si addolcise di un 20 per cento in più, tanto che una volta in uno slancio di amicizia mi regalò un coltello dicendomi <<...tienlo in tasca...che non si sà mai...!...>> coltello che ho sempre conservato portandolo con me sino a che un carabiniere a Roma ad un posto di blocco mi perquisì lo zaino esclamando << ma guarda  che c'è qua ..!?...>> lo gettai dentro un cassonetto appena mi rilasciò. Invece O. Barret per sè, tiene un revolver calibro non lo sò; non l'ho mai visto comunque a sentir lui, è cromato ed  esplode colpi di grosso calibro. O. Barret mi racconta spesso, quando è in vena di confidenze; che una volta una donna da lontano lo vide, gli andò incontro, e gli mise la mano sui pantaloni sentendo le dimensioni dei genitali; gli avrebbe detto <<... se tu sei grande ? il tuo cazzo è altrettanto grande ?...>>  O. Barret nel dirmelo sorride pensando che le donne a volte son mignotte da gran che son sfrontate. E lo guardo muoversi; stretto dentro quei pantaloni attillati e la camicia altrettanto attillata e allacciata in parte; con il petto villoso in vista e la croce d'oro affondare tra i peli scuri, mi fa pensare: come un uomo di queste dimensioni debba avvalersi per vivere di una pastiglia minuscola, che mi mostra avere sul palmo della mano: che gli regoli l'equilibrio.         

domenica 9 febbraio 2014

duecentossessantatre


- l'imprenditoria geniale -

Musol Popa scese dal treno. Entrò in città osservando nel suo deambulare come chi incontrava, camminasse tranquillo con le proprie faccende da compiere; mescolarsi ad altra gente ferma davanti ai caffè nel discutere fumando; oppure oltre le vetrine che vedeva leggermente appannate stesse seduta; e come altre stessero sedute all'aperto a tavolino; assaporando quella giornata nuvolosa dalla calura accennata nell'aria; che spingeva i panni stesi alle finestre da cui Musol Popa abbassò lo sguardo; incamminandosi verso uno dei tanti mercati chiassosi della città; vedendo su una bancarella un paio di scarpe esposte a poco prezzo, ma molto eleganti: le comprò. Camminandoci dentro per buona parte della giornata, sentendole comode ed elastiche prender forma al proprio piede; in una comunione più che efficiente per quel prezzo: un vero affare. La sera vide Musol Popa uscire elegante dall'hotel, per frequentare i luoghi più prestigiosi della città notturna. Guardò in cielo: stava per piovere. Musol Popa indossò il soprabito e poco dopo si rallegrò di quella scelta: sentiva le prime piccole gocce cadere sulle guance. Ma subito un rovescio violento si abattè sulla città. Musol Popa si mise a correre al limite della piazza, tentando di superarla in quella corsa sentendosi inzuppare tutto; ritrovandosi dall'altra parte all'asciutto e al riparo sotto un portone; sentendo sul corpo bagnato gli abiti incollati alla pelle; e i piedi nudi delle calze sul marciapiede e si guardò attentamente i piedi e come le scarpe con quell'acqua si fossero sciolte durante la corsa trasformandosi in due oggetti informi e zuppi di acqua: come se fossero state realizzate col cartone.        

duecentosessantadue


- il figlio del Presidente -

Flann, Gorka, Mario, Callisto e Peio decidono di passare un periodo al mare in un appartamento. Lo trovano vicino alla ferrovia e lo affittano. Tra loro si parlano intercalando frasi tipo  <<...hei baby... >> che suona fracassone e allo stesso tempo necessario a stemperare la serietà delle cose, nelle discussioni tra loro. Fumano marjuana, hashis, tranne Flann che preferisce il crack, Gorka e Mario preferiscono l'eroina, Peio sniffa solo colla, tanto che viene chiamato dagli altri - neurone - se da quando sniffa colla, pare ci sia stata una rapida estinzione dei neuroni nel suo cervello, i quali non si sono più ripopolati: tranne uno che resiste. Nessuno fuma e Callisto si spazientisce a rullare canne a cui preferisce le Marlboro normali, fissando il pacchetto con una giravolta sul muscolo della manica t- shirt; Callisto osservando il fumo nei panetti sul divano della stanza esclama  <<... oh cazzo se non lo fuma nessuno sto fumo ...lo vendo...mica lo tengo da fare mobilio a darmi delle arie a chi viene a trovarci...fatto piegato e murato...  !?...>> ! <<....yeha baby ..hai detto giusto...vendilo che poi dividiamo la grana...>> gli rispondono dal bagno. E quindi Callisto ha il suo luogo, piazzetta, angolo di via, poco illuminato, vicino un sottopasso, poco distante da una via di fuga, dove incontra la sua clientela necessaria a sostentarsi. Gli incassi aumentano la clientela pure, la qualità del fumo è ottima. Callisto aprirebbe una partita iva. Gorka lo sconsiglia, proponendogli di non prendere decisioni quando fuma hashis. Una sera nella retata della polizia viene preso Callisto. Lo portano in caserma, fanno la perquisizione nell'appartamento, casualmente non trovano nulla, ma trovano gli altri quattro Flann, Gorka, Mario, Peio sballati putridi se alla vista dei poliziotti, gli stessi poliziotti vengono scambiati per trans eccentrici in quelle divise; i quali trans vengono amabilmente dileggiati, accarezzati, dai quattro, nell'intenzione di proporre loro un'orgia collettiva: sono tutti arrestati. <<...sarà per un'altra volta...>> afferma il poliziotto, facendoli salire sul cellulare. Callisto sulla sedia lungo il corridoio in caserma, vedendoli entrare dalla porta, si alza seguendoli in una stanza adibita a interrogatorio. I 5 si rendono conto tra l'euforia e lo stordimento scemato degli stupefacenti, che le cose si mettono male, quando vedono entrare nella stanza 4 energumeni in divisa. Il più estroso e disperato Callisto gioca la carta con l'asso e affrontandoli serio gli si fa incontro dicendo <<...non mi toccate...sono il figlio del Presidente della Repubblica...!...>> I 4 energumeni vedendolo serio, solido, stentoreo e credibile in quel tono, con un chè di aristocratico, indietreggiano, voltandosi e uscendo dalla porta. Callisto non ci può credere che quell'idea dell'ultimo minuto, sia stata vincente e voltandosi guarda gli altri quattro; che a loro volta soddisfatti per lo scampato e presumibile pestaggio; applaudono Callisto che li avvicina ricevendo lodi di approvazione e stima, quando nella stanza rientrano altri 4 energumeni decisi e uno fa <<...chi è il figlio del presidente ? ...>>  ? << ...tu ??...>> indicando Peio; il quale non capisce stordito e felice del successo di Callisto quando i 4 energumeni lo pestano a schiaffi sonanti  pim pum pam, pim pum pam, pim pum pam; terminato la spedizione punitiva: escono dalla stanza e l'ultimo voltandosi verso Peio gli dice <<...ci saluti il Presidente...!...>> chiudendo la porta. Sblaam.               

sabato 8 febbraio 2014

duecentosessant'uno

 - Fryederik Issa Raman -

sfodera un look antico e stralunato, con un qualcosa di recente per esempio: il foulard blu cobalto legato a metafora d'un impiccagione; il quale avvolto al collo, gli stagna veleggiando morbido disarcionandosi nei cromatismi presso il volto che sorride dentro la barba folta discendente; e lo inquadri meglio: è Fryederik. Non ci vediamo da tempo e quando capita, lo trovo sempre logorroico, di natura ilare depressiva; scoprendosi in tal modo, dopo due o tre viaggi mentali che egli deve aver fatto in solitario qualche istante prima al momento in cui lo incontro; dove sfodera in avanguardia, quella sua garbata forma di cinismo alla melassa per ogni aspetto della vita che lo riguardi; masticata, elaborata, rielaborata, e distillata in frasi brevi divenuti slogan acidi in una toccata e fuga; senza cercare il significato di ciò che si è detto, per non morire di li a poco; e nel flusso costantemente teso Fryederik  apre il forziere dei propri istanti, raccogliendoli nel dialogare con l'accento più forbito che può, modulando la voce pacata esattamente nuova di naftalina; uscita dai meandri delle interiora più che dell'anima, con quel fiato che spinge le parole e allo stesso tempo innescando il senso, ne desiste sulla profondità: sulla caratura;  per non dover incedere nella psicanalisi; che scivolarvi dentro è un attimo fragoroso per chi non ha tempo da dedicare all'approccio umano; e Fredyerik sa che gli altri non hanno tempo di chiacchierare: si avrà tempo quando si sarà morti e stesi, pensa Fryederik; che accetta le parole che gli si dicono, in quel seguirle dall'evenienza di svilupparsi in dramma da dover rimasticare, ripulire, affinare, ramificare, cogitare in solitario e non ad alta voce che sono operazioni introspettive delicate e Fryederik a quel punto: capitozza. Rimanendo leggero arguto e dimesso per apparire anonimo e sentirsi libero all'esterno e intricato all'interno; regolando così il proprio disagio offrendone il 30 % a chi lo incontra sul piatto di un sorriso e convenevoli sinceri e quel trenta per cento lo distilla in verve traducendo e arrotando il proprio destino; punendolo per aver scelto egli stesso: Fryederik; lo guarda estraniandosi e domandolo, anestetizzandolo, in prospettiva ebraica nonostante egli sia mussulmano. Si. Convertito dopo essere stato ateo, scettico, buddista, cristiano no, induista ci fece un pensiero, ma l'idea di essere colto da una foga mistica nel farsi rinsecchire che so un braccio restando immobile per sempre, deve averlo fatto desistere dal proposito, se mai l'avesse considerato; in ogni caso, nonostante la sua logica ferrea e ordinata, pare abbia la necessità in una di quelle ramificazioni intime e illogiche di cui sembra essere dotato, di avere un Dio da seguire; e il pantheon ad un certo punto dell'esistenza ne offriva una mezza dozzina papabili. Dunque la religiosità insistente di Fryederik ha senso nelle sofferenze altrui; commiserandone il principio, e paragonandolo al proprio; ricercando quel principio di tutte le cose: nell'anima e non da altre parti; per divenire ciò che nè presente nè passato nè futuro abbiano a ricordare; sulla lapide che aspetta ad ogni uomo prima o poi, con qualche frase doverosa di non sostanza. 
   

giovedì 6 febbraio 2014

duecentosessanta

vi
è
 una  
leggerezza
consapevole che
 pur non esprimendo dolore
 lo conosce. Ma
sterile e nociva 
se da sè
 viene
generando  se stessa.

martedì 4 febbraio 2014

lunedì 3 febbraio 2014

duecentocinquant'otto


- Yodo l'orientale -

Yodo si sveglia nel cuore della notte. E riflette ad occhi aperti al buio, nel tepore delle coperte. Si alzerà; farà colazione; la preparerà per i suoi figli. Dopo aver preparato il caffè a suo marito. Laverà le due stoviglie della sera prima. Piscerà. Si rinfrescherà, si laverà i denti, quelli dei suoi figli. Indosserà una gonna, anzi no, fuori c'è freddo. E allora indosserà i pantaloni della mimetica, un pullover nero dolcevita, un gilet di color corallo. Indosserà le scarpe ginniche. E per suo figlio; al primo gli farà indossare i jeans e il pullover blu, quello stirato e preparato sulla poltrona; all'altro uguale, che se no litigano. Preparerà la camicia bianca di suo marito che è da stirare solo lì dal colletto. Metterà in lavastoviglie i piatti della colazione. Porterà fuori il pattume. Farà fare i bisogni al cane. Aspetterà suo marito che è sempre in ritardo, e insieme. Prenderanno la vettura. Andranno ad aprire il bar, che per le 6 deve essere attivo. I bimbi scorrazzeranno tra i clienti della colazione e alle 8 saranno da accompagnare, uno all'asilo. L'altro a scuola. Al bar rimarranno sua sorella e suo marito. E non sarà ancora mezza giornata. Yodo guarda l'orologio sul comodino. Le 4,30. E guarda suo marito che immobile dorme, col respiro flebile e beato. Yodo si spoglia piano i pantaloni del pigiama e si toglie la maglia lasciando nudi i piccoli seni rabbrividiti. Rimanendo nuda. Sotto le coperte e allungando le mani. Sul sesso di suo marito. Che reagisce con un movimento d'interferenza nel sogno. Che gli va svanendo nella mente. Yodo dolcemente s'intrufola tra le gambe di suo marito e gli lecca il sesso moscio. Stimolandolo a indurirsi. E il pene si va trasformando gonfiandosi e diventando turgido, mentre Yodo con la lingua bacia i punti più sensibili fin arrivando a succhiare il glande. E poi con la lingua i colpi energetici allo scroto e all'ano. Masturbandosi e accalorandosi nel trovare il suo regime di marcia sessuale, fa un pompino a suo marito che dal sogno. Passa alla realtà aprendo gli occhi a quel ciucciare di sua moglie e un po' sorpreso e un po' stordito guarda Yodo che nuda gli sta facendo un pompino le dice con parole impastate dal sonno <<...a quest'ora ?...>> ...?!...<<...e si a quest'ora >> risponde Yodo alzando la testa <<...a quest'ora voglio la mia razione di uccello...mica posso solo lavorare ?...>>.  

duecentocinquantasette


- codice rosso -

Il codice era rosso. E l'autoambulanza velocemente partì dall'ospedale, curvando e immettendosi sulla via per raggiungere il ristorante. Al telefono erano stati chiari a spiegare l'emergenza: l'uomo si era accasciato tra i commensali, accusando un malore durante il pranzo. Si doveva fare presto usando il fibrillatore. L'autoambulanza a sirene spiegate superò la fila di vetture ferme al semaforo. Svoltò rapidamente superando l'incrocio; entrò nel parco infilandosi in uno spazio davanti al ristorante. Gli infermieri scesero: aprirono il portellone laterale, facendo uscire la lettiga spingendola sulle rotelle, e correndo entrarono al ristorante. Tutti i commensali smisero di mangiare; voltandosi verso l'entrata dove gli infermieri entrati nel locale si erano fermati con la lettiga e il fibrillatore in mano chiedendo al barista <<...dov'è...? >> Il barista alla macchina del caffe, si voltò guardandoli e non perdendo d'occhio la misura del liquido, che lento scendeva nella tazzina: rispose  <<...dov'è chi ?...>>.    

duecentocinquantasei


- Jhoal -

Jhoal è ieratico col sorriso nel coltello e nel cuore degli occhi ha impressa la selva dell'oriente come disegnata da ricordi in lui sempre vivi; e ti va vedendo ciò che fai mentre egli, si avvolge il capo nel turbante di cotone, carta zucchero; e se la periferia del volto che tu vedi, mostra i promontori di una barba brizzolata, lì dal naso inforca gli occhiali scuri di una femminilità gioiosa e civettuola. Jhoal è un sikh; che si presenta con la tuta di lavoro in un pezzo unico di stoffa lisa, con la cintura sulla vita che a figura gonfia al vento pare un omino della Michelin; col coltello contadino pronto all'uso nella fondina che spunta dalla tuta da meccanico rurale con la pubblicità vetusta impressa e scolorita sulla schiena. Jhoal impressiona di esistenza truce, alla guida del furgone colore panna della Volkswagen con cui trasporta in eleganza i tronchi dell'albero da frutto che ha tagliato nel podere; guidando quasi fosse un principiante, con la frizione che stacca in alto; sorprendendolo nell'inesperienza che alla guida egli la traduce in attenzione ed eleganza; promanando una volta sceso e al tuo cospetto: rispetto. Che si deve alle virtù antiche di cui è figlio. Jhoal infatti non è frignone, non si piega a salamelecchi, non prega per favore, o per piacere, poichè quelli che lo fanno poi son disposti a baciarti le natiche all'occorrenza, a farti accoppiare con la moglie per amicizia, oppure offrendo la figlia come cupiglia tra due anime nel legame di convenienza.

domenica 2 febbraio 2014

ducentocinquantacinque



- Imelda la diva -


Imelda si avvia  uscendo di casa. Chiudendosi la porta alle spalle e incamminandosi sulla via, tra le abitazioni; tutte basse e uguali in un'atmosfera calda e sonnolenta osservandosi attorno nemmeno troppo sorpresa, se nota di essere l'unica anima ad essere in giro. Femmina occidentale; Imelda come una diva indossa gli occhiali da sole su un abito fresco e dal taglio elegante, con in capo un cappello a falda larga e l'ombra della sua figura che si staglia nitida a terra definendosi al millesimo; Imelda guardandosi di nuovo attorno esclama tra sè <<...caspita ma che razza di posto è questo ?...se tutto è uguale e non c'è un'anima in giro ? ...mah...case col giardino e il muretto di cinta, e sabbia ovunque...cactus e ulivi...e il mare laggiù...non c'è altro però ! ....e poi nemmeno in casa ....questi qui...hanno qualcosa......sono bestie...non hanno mobilia, tengono tutto a terra, sul materasso, e pensa te...... donna occidentale: se mi posso abituare a questo andazzo...e poi nemmeno a essere ospite dei genitori del mio compagno; sono libera...che se esco da sola...c'è il rischio che mi segua tutta la parentela. Mi segue si. Hai capito bene...>> si dice tra sè Imelda, come dialogando con un'altra parte di sè camminando: continuando a parlarsi <<... hai capito bene si, che se esco da sola ...vado in giro per il paese con i parenti africani del mio compagno...a distanza che mi seguono, e mi sorvegliano in quello che faccio...tz...hai capito bene !...vado in giro con la processione... che mi segue...che se ci penso divento matta......mica mi posso fare seguire da questi che pensano...boh, ma che pensano ? e che ne sò che cosa pensano......non lo so...forse pensano che la donna occidentale sola chissà che combina...ma che vuoi mai che succeda ad una donna sola ?!...e che vuoi che faccia ? tuttalpiù una donna sola: la dà via...ma mica come fanno qua!...che a darla via ti torna piena col marmocchio, e poi un'altro, e un altro ancora, da dover tirare sù...!... ( e poi è chiaro che le donne la figa la danno via a fionda ) eh...non c'è lavoro, non c'è divertimento...mica lavorano, mica vanno a ballare, e se non scopano che fanno ? ...mica ti puoi mettere a spolverare la casa...e che cazzo spolveri se non c'hai la mobilia, i muri...>> e mentre Imelda va pensando, camminando assorta tra quelle vie assolate e polverose, nota che il parentado del suo amante, compagno, uomo come lo si voglia chiamare: la stanno seguendo. <<...questo si chiama stalking...altro che cazzi...in occidente si chiama stalking...e questi...si fanno i fatti miei...>> e nel dirsi e confermarsi questi pensieri Imelda vede da lontano sulla strada, una vecchina su un calesse, trainata da un asino. Che avanza lemme lemme, proprio nella direzione di Imelda. E allunga il passo Imelda tenendo fermo il cappello ad un refolo di vento che le svirgola sul viso. Mentre il parentado per un attimo sorpreso da quella accelerazione di Imelda si ferma osservando e vede. Imelda fare un cenno alla vecchina col carretto. La quale nota la donna occidentale per come è vestita ed emancipata in quel gesto: che le va incontro con una mano sul cappello chiedendole qualcosa in una lingua che non conosce. E la vecchina sta con le briglia dell'asino in mano ferma mentre Imelda con una sorta di eleganza provocante alza le gambe per salire sul carretto. Per sedersi a fianco della vecchina che sorridente avvolta in quel telo nero che l'avvolge tutta guarda Imelda nell'attimo che si va togliendo le scarpe a spillo con quell'espressione di liberazione. L'asino si sente frustato e s'avvia con speditezza. Il parentado con altrettanza speditezza, allunga il passo per raggiungere il carretto. Imelda si volge all'indietro verso il parentado che d'impegno s'è messo a seguirla con spirito di sacrificio, inviando un cenno per indicargli ad alta voce la via che devono intraprendere per raggiungerla <<... e andatevene a fare in culo pezzi di merda!...>>. 

sabato 1 febbraio 2014

duecentocinquantaquattro

 
- la filosofia di Agtrack -

Agtrack è un uomo esterno, indaffarato nel non far nulla. Ispeziona cascami di pensieri, generalmente luminosi che gli passano per la mente. E con gli occhi. Lucida gli angoli di porfido e i pianeti nel loro gravitare floreale, per poi raccoglierne i petali. Che in quel gravitare si son staccati, sollevandosi nell'aria, come musica per sordi. Agtrack in che luogo si trovi l'universo e perchè non cada, non saprebbe dire poichè è un uomo d'altri tempi. Incastonato nel contemporaneo urbanizzato che allungatosi a dismisura, al di là di ogni sua astratta aspettativa, gli restringe la campagna zona naturale di sollazzo venatorio. Sovente col fucile a tracolla puoi vederlo in bicicletta percorrere la tangenziale con in capo un cappellino rosa scolorito che pubblicizza il mangime, non umano. Mulinando nelle pedalate le gambe galvanizzate dalla caccia, col busto ingessato e in erezione che va fiutando. Flussi aerei sgranando gli occhi, come satelliti tiroidei in eruzione, in quel cranio teso nei muscoli del collo, e del corpo tutto. Innalzandosi dalla sella in bicicletta, come se si trovasse su un destriero nel passare salutando un invisibile graduato in passerella. In realtà Agtrack va vedendo la campagna e chi ci abita da millenni, privo di parola e indossando il pelo. In contro luce. Con la mano sulla fronte osserva il panorama saltellando ritto nelle gambe sui pedali, che lo accompagnano scomposto in un movimento cinetico ed eccitato come se vedesse, la presenza di una preda assai possibile. E batte il pesce cardiaco in petto, al prode Agtrack in perfetta forma. Sulla bicicletta, la quale sul portapacchi dietro, ha posizionato la cassetta vuota di acque minerali, legata con lo spago e un fiacco fiore al bordo, raccolto tra i rifiuti; l'unico segugio per la caccia. Agtrack imboccata una contrada e scelto il punto esatto, si lancia all'inseguimento di nessuno, correndo e atterrando di corsa.  Mantenendo di lato il manubrio saldo e la manopola di madreperla in pugno, con la mano che da lì a poco si staccherà per imbracciare il calcio del fucile. E frigge in un eco la catena dentro il carter, con un rantolo all'indietro Agtrack va declinando piano il mezzo a terra, sfregando con la coscia la bicicletta, per poi abbandonarla sopra il ciglio del fosso. Dentro il quale si stende. Rimanendo ore e ore immobile come un marines; simile ad un animale. Goffo. E gli abiti così, gli si impregnano di selvatico, dice lui <<...è fondamentale...>> sfregandosi il terriccio sulle guance. La lepre in quel silenzio e dopo del tempo si avvicina. Fidandosi. Seppur guardinga. E si narra che l'ultimo rumore di questo mondo che la bestia ode sia: ...pow...! esploso in un colpo infuocato: raramente due. E vedi Agtrack sulla sua bicicletta andare pedalando e dietro, le orecchie lunghe della lepre, sbucare flosce scivolare dall'alto verso il basso, e di fianco il fiore fiacco sul bordo della cassetta mentre Agtrack . Pedala con gioia sulla via del ritorno impugnando una sottile corda nel trascinare come su un palcoscenico il sipario striato cremisi del tramonto. Non c'è che dire: Agtrack è un uomo scomodo.    

duecentocinquantatre


- Yul Oregon detto Nino -

Yul Oregon detto Nino era amico di tutti. Del vigile urbano, dell'edicolante, dell'orologiaio, del fornaio, del venditore di libri, di quello dei profumi, del giocatollaio, della parrucchiera, del barbiere, del macellaio, del pescivendolo, di tutti insomma. Ma aveva amicizie anche altolocate. Il dentista, il chirurgo, l'assicuratore, il dottore, per arrivare all'assessore, sino al sindaco. Fiore all'occhiello delle sue amicizie; che aveva visto due tre volte e salutato una. Yul Oregon scambiava due parole con tutti, perchè era amico di tutti. Un giorno morì. Non per via delle sue amicizie, ma per morte naturale. Al funerale dietro il feretro non vi era nessuno. Solo la madre che seguiva quel corteo di nessuno, e dove il prete procedeva recitando e benedicendo; seguendo la vettura mortuaria che lemme, s'indirizzava al campo santo. Solo la madre al funerale di Yul Oregon, unico figlio morto prematuramente. Vi era lei e nessun'altro, per quel viaggio. Poichè in quel giorno feriale erano tutti impegnati, chi per una cosa chi per un'altra. Certamente se fosse morto in un giorno feriale, e poi si fosse deciso di fare il funerale durante la festività, il corteo sarebbe stato più nutrito. Questo bisogna dirlo per non offendere nessuno. La madre seguiva il feretro nella vettura, la quale vettura svoltò verso il campo santo. Raggiunto il campo santo, la donna attese che la salma nella bara fosse posata sul carrello d'acciaio e trasportata al loculo; ferma, mesta, rispettosa nell'essere in quel luogo. Posò la bicicletta facendo attenzione a non far cadere le arance e il sedano, che spuntava fiorente dalla sporta della spesa e avvicinò il prete che voltandosi verso la madre di Yul Oregon detto Nino si sentì chiedere <<...scusi reverendo....credo di aver sbagliato funerale...a che ora è quell'altro ?...>>.    

duecentocinquantadue


- Ursula e Feliksana -


Questa tipa, compare davanti ad Olmo, di mattina presto dietro la vetrata di un ufficio. Porta gli occhiali da dottoressa, jeans attillati, camiciuola bianca e puloverino bluette; ha un caschetto biondo e concentrata al computer non guarda altro. Dà il profilo ad Olmo che aspettando: la vede sedere altezzosa col busto eretto, tenendo i glutei leggermente sollevati dalla sedia. Muove freneticamente le dita sulla tastiera del computer, rimanendo calma e ingessata in quelle sue dita magre con le unghie tinte; d'un rosso abbacinante che freneticamente si muovono. La tipa ha la carnagione chiara e con voce da lagna irritata ma sedata in una magniloquenza mattutina gli comunica da maestra; come a chi non capirà ciò che lei va dicendo; osservando la videata sul computer; se sul documento che va controllando; manca questo o quello e infatti qualcosa che non va lo vede e lo corregge; e che la prossima volta non sarà così indulgente e nel dirglielo; gli spiega di nuovo dove deve andare. E Olmo sa che in quell'andare, che la tipa gli sta spiegando, in realtà se potesse, lo manderebbe a quel paese, per disprezzo, bon ton, alterigia, educazione. Perchè ? Perchè Olmo le sta sulle palle a prima vista: che poi pare che la tipa non lo abbia visto, ma in realtà lo ha inquadrato già da un pezzo. Mentre gli parla e batte le dita sulla tastiera, Olmo calmo serafico e con qualche increspatura di umore, la guarda ipnotizato con lo sguardo assorto e incredulo; sentendola interloquire nell'alzare leggermente il tono della voce d'un garbato molesto; in direzione di un'altra donna: che Olmo non aveva scorto se la ode rispondere, da un altro ufficio dalla porta aperta; sentendo fuoriuscire una voce secca che non ha mai udito. E si dice Olmo nei pensieri <<...due piccioni con una fava... oggi è una giornata miracolosa !...ho trovato due pezzi di merda in un colpo solo...>> E ascolta quell'altra di tipa che dall'ufficio con quella voce modulata su note acute che virano ricordando il cicalino di un camion in retromarcia; parla messa al corrente della faccenda della correzione apposta sul documento; redarguendo Olmo se veramente pare che non abbia questo, e nemmeno quello ma che per questa volta: passi. E uscendo dall'ufficio, alza lo sguardo indulgente su Olmo e gli dice << vai pure...! >> e Olmo rispondendo <<...senz'altro ...! >> esce, per poi sibilare tra i denti <<...ma andate a farvi inculare zoccole..!...>>.