giovedì 14 maggio 2015

quattrocentodiciotto 418


è questo il rifugio; l'antro nero con cui mi allacciasti i pensieri. Lo vedo è ieri. Oscurasti il candore dei nostri gladioli all'altezza del futuro; raggelasti l'odore che seduce ed imprigiona. Ti appropriasti dei nostri occhi sotraendone la luce, spegnesti tutto con l'impasto di melma e crollo e raccomandata di non ritorno. Pur capendo, vissi e morii: non avevo altro che noi. Ogni tanto ci penso: nè piansi nè mi disperai per aver fallito; sentii un lento defluire in me, di rancore che la vita in sucessione svaporava avvolgendola d'oblio; svolgendosi. Morivo indirizzandomi al punto per noi di non ritorno. 

lunedì 4 maggio 2015

quattrocentodiciassette


 - a mia insaputa -

l'albero nell'acqua si specchia odalisca, non odo fruscii. Mi raggiunge dal fogliame un nitido canto: è una croce; nera che vibra tra pennellate di nuvolaglia e vastità, si confonde. Con bramosia contenuta  la luce fissa l'umbratile esistere. Il viaggio mi appartiene ruotando nella diversità dell'uguaglianza. Mi ripeto mutando. La coscienza mi supera in volontà: partecipo alla ciclicità breve dell'eternità. Fisicamente mi dilato. Attraverso il presente vivo; nel concetto di futuro decadrò: intelligo così nel disegno universale. Facendone parte immagino per intero, razionalmente a mia insaputa.