domenica 29 gennaio 2017

quattrocentonovantasei


 - Black sacred -


Busso mi apre la porta, la ragazza robusta mi chiede cosa voglio, le chiedo se posso entrare per vedere. Guarda in sala, si gira, mi risponde si. Il padre della ragazza, mi dà un'occhiata, un cenno col viso mi indica dove c'è un posto. Vecchie seggiole da cinema. La ragazza robusta ha modi cortesi parla il mio idioma, con lo sguardo mi segue nei movimenti. Il padre si accerta che come ospite sia seguito. Nella sua lingua dialoga con figli amici che mi sia fatta la traduzione. La figlia mi chiede se ho con me la Bibbia, le dico a casa, sorride alla risposta, mi sento ingenuo, dico no, ne trova una su un tavolo, me la porge dopo aver cercato il passo di cui la sacerdotessa sta parlando. Daniele capitolo 10. La sacerdotessa riassume il brano, commenta, chiede, da risposte. Parla al microfono l'alto volume non disturba nessuno. Dal piano superiore cui si accede da una scala laterale interna in legno come quella che ho visto in un film girato a New Orleans, si sente provenire una musica da ballo. Sacro profano si tollerano . Nei momenti di silenzio della sacerdotessa, la musica spensierata scivola sulle nostre teste come il gioco di un bambino in un luogo sacro; quando la sacerdotessa parla la ragazza mi traduce; termina di commentare il brano di Daniele della Bibbia, racconta un sogno che fece. L'alto volume della narrazione induce la ragazza ad avvicinarmi la bocca all'orecchio per tradurmi il sogno, incontro un'onda con la vista, la sento di capelli femminili puliti sulla maglia. Nel sogno la sacerdotessa incontra un Demonio che la inganna, lei si accorge dell'inganno attraverso i fiori che sono di fuoco. Il padre della ragazza mi guarda, guarda la ragazza senza dire nulla. Provo un attimo di insofferenza, non ho capito tutto quello che c'era da capire, la ragazza mi ha distratto. Non è colpa sua, la giovinezza mi distrae. Davanti a sè ha il futuro che io ho bruciato e non ho più. C'è uno spirito che vale la pena di conoscere dentro la gioventù, di purezza, non intaccato dall'esperienza; quel modo di vedere il mondo che può salvare il genere umano. Vorrei essere attorniato non da amanti, ma da figli figlie, che generano questo sentimento nell'aria che può respirare chiunque, senza morire prima di scomparire dal creato. La gioventù non mi manca, mi manca la giovinezza attorno, la spensieratezza, il senso di futuro del futuro, che mi / ci è stato depredato, sostituito dalla vecchiezza, dal senso ridicolo che mi / ci pervade ammorba l'aria come consuetudine, normalità di vivere in realtà si sopravvive, poichè la giovinezza che non intacca la nostra società rinsecchita, ha uno spiraglio di luce che irradia gli esseri viventi rendendoli rivoluzionari per il fatto di essere / esistere. Le società giovani squassano l'ordine se si regge ingiustamente scorre il sangue. E il sangue ha fascino / energia, sul sangue si costruisce la via luminosa per ringiovanire la società. La ragazza intuisce un imbarazzo per qualcosa che non sa definire, l'imbarazzo per aver avvicinato e aver percepito la mia diversità di uomo. Curioso, se sono in quel luogo religioso che evoca la patria africana lontana dalla città in cui viaviamo e lontana da me che sono un bianco. La ragazza si allontana aiuta la sorellina a risolvere un intoppo, parla col fratello il quale mi guarda come si guarda l'anomalo con rispetto, torna, nel momento in cui torna, mi alzo dalla seggiola le guardo i capelli voluminosi: la ragzza incinta più in là, il bambino cui ho risposto con una smorfia, il padre assorto nel sermone, la moglie uscita dal coro delle donne gospel. Le allungo la mano per salutarla, allungo la mano al fratello, mi volto, chiudo la porta cigolante, guardo la scala di legno obliqua che porta sopra dove suonano ballano, esco all'aria. La notte. Un gruppo di ragazzi infreddoliti col cappuccio calato in testa a rapper metropolitani mi guarda di spalle andarmene tranquillo.                            

quattrocentonovantacinque



 - Un cocktail con Emily Dickinson -


Seduto al bar sorseggio il mio caffè, tutto nel disegno che mi si svolge davanti è lontano. Il piano americano della donna che fuma di scorcio fuori dalla porta del bar, digita l'abito nero su cui taglia le ali di farfalla; le indossa attraversando la notte ignora i radar, gli infrarossi che detengono il potere dell'invisibile, segue alcuni versi poderosi che le illuminano il percorso, atterra posandosi esattamente di fronte a me. L'uno davanti all'altra. L'onirico mi percuote si deposita sogno di lei nella mente. La donna appende le ali all'appendiabiti. Si siede ordiniamo il cocktail Daiquiri: Ernest Hemingway ne era un forte intenditore rum, limone, zucchero, ghiaccio tritato, maraschino, la versione inventata da Hemingway nota come Papa doble da cui tolse lo zucchero, lo ordinava doppio. Conversiamo amabilmente del nostro modo di vedere la vita, del modo di morire, resuscitare giochiamo con l'eternità di cui l'umanità teme la trama, la prospettiva della parola nella coscienza, prospettiva immagine nell'inconscio collettivo, individuale, sul determinismo dei colori ecc. Emily Dickinson aprezza il Daiquiri sorseggia sulla sedia a dondolo che si è portata dal Massachusetts ascolta le parole che tra noi fluiscono a tal punto, che dolcemente si alza dalla sedia con una forbice di argento taglia alcune frasi annodate, ingarbugliate, dopo essere state espresse nel discorso da cui fuoriescono come da un cilindro nero quattro colombe di bianco lunare, volano di qui di là dentro il bar sino ad atterrare sul tavolino, sul davanzale della finestra bagnata di pioggia, sull'orlo del bicchiere da cocktail, poi ne esce una quinta colomba fatta di jeans con le zampette in ferro rosa pare anch'essa fatta da Dio penso" buffa la vita, vola come le altre ! " Nel frattempo Emily taglia e cuce le parole sino a quando si rimette a sedere sulla sedia a dondolo, mi mostra una parola ricamata da lei su una pezzuola con scritto WOW che mi dona, mi lego alla fronte come pasdaran nella guerra tra Iran / Iraq guardiano della rivoluzione, sulla pezzuola i versetti del Corano passaporto per il paradiso con cui il pasdaran affronta la battaglia. Emily si rimette a sedere sorseggia il Daiquiri lentamente, per manifestarle la mia gioia per il dono del WOW ricamato, aziono il carillon minuscolo piano nero sul banco del bar, la musichetta è accompagnata dalle parole recitate da Ian Curtis cantante dei Joy Division della poesia di Cesare Pavese // Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,  questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla // Thelonius Monk piccolo suonatore del carillon dopo aver atteso l'applauso meritato che nè io nè Emily gli neghiamo per l'accompagnamento musicale alla struggente poesia, fugge a gran carriera scivola sul banco reggendosi alla zuccheriera per l'arrivo minaccioso di uno stormo di uccelli elettrici in volo. Entrati a gran carriera attraverso la finestra dove il colombo bianco lunare tuba sul davanzale avvicinandosi e allontanandosi dal vaso in cui una mano umana piantata a mo' di bonsai da chissà chi, funge da pianta carnivora; uccelli da un lungometraggio di Alfred Hitchcock con la dinamo sotto le ali il becco acceso dal faro atterrano come una foto ricordo nel dehor di tavolini e allo stesso tempo a centinaia di chilometri in piazza del Duomo di Milano. Svolazzano sul volto e la testa di Ian Curtis il quale sorride a Emily Dickinson che ricambia mi sussurra " quel cantante ha un viso da britannico intelligente che viene dalla periferia " Thomas Stearn Elliot uscito dalla toilette sedutosi digita lo smarth phone s'infila l'auricolare si alza butta nel cestino un foglio appallottolato, ed esce a fumare una sigaretta. Lo vedo ridere di gusto mentre se l'accende, si volta mi guarda alza la mano regge un cartello che mi mostra oltre la vetrina del bar, c'è scritto - se il vino non lo reggi te lo devi magnà a chicchi ! ( Bacco ) - Rido sonoramente mi piego verso il cestino, raccolgo il foglio appallottolato lo svolgo in corsivo è vergato il testo della canzone Love Will Tear Us Apart dei Joy Division scritta proprio da Ian Curtis forse la canzone più struggente degli anni 80 /90 della new weave. Sussurro all'orecchio di Emily rispondo" si è britannico, famoso negli anni 80, autore di una canzone famosissima s'intitola Love Will Tear Us Apart scritta mentre si stava dividendo con la sua compagna Deborah s'è impiccato ad una rastrelliera fissata nella cucina di casa " le leggo l'inizio del testo della canzone dal foglio gettato da T. S. Elliot " when routine bites hard, and ambition are low, and the resentement rides high, but emotion won't grow, and we're changing our ways, taking different roads, then love love will tear us apart " cerco di tradurre il testo in Italiano - quando la routine morde duro, le ambizioni sono basse, il risentimento vola in testa, le emozioni non crescono, stiamo cambiando i nostri modi prendendo strade diverse, poi l'amore ci farà a pezzi - sono ipnotizzato dalle parole; entra in bar Slobodan l'amico che incontro ogni mattina al lavoro vestito da centurione romano fisico guerriero viso stralunato siede al tavolino si spalma una crema antiinfiammatoria sul ginocchio tra se maledice non so chi a voce alta si lamenta che ha i tendini infiammati mi mostra la custodia del farmaco voltaren gel mi dice che sta facendo la comparsa in un film storico dei fratelli Cohen sul set è estate c'è un caldo torrido gli è venuta voglia di mangiare un cocomero, gli dico che le cocomere d'inverno se ci sono le vendono alla Coop, mi risponde che non gli piace andare alla Coop vestito da centurione romano, chissà cosa pensa la gente, gli dico di non preoccuparsi di solito la gente che va ai supermercati non pensa; comunque non gli piace, mi chiede se in zona c'è un negozio di frutta, gli dico non so, avvia dal cellulare il navigatore per vedere se in zona c'è un negozio che a febbraio vende i cocomeri gli faccio gli auguri. T.S.Elliot mi mostra un altro cartello su cui c'è scritto- prima devi sapè perchè stai al monno, quando sai il perchè ce stai, te devi imparà a staccè- e ride a crepapelle - penso che sia un cartello antistorico, nessuno si pone più la domanda di sapere perchè si vive. Ian Curtis si allaccia la cintura ed esce dal bar mentre i baristi cinesi assorti nei loro giochi allo smarth phone pare abbiano un talento per la distrazione che è impareggiabile, guardano un film western parlato in tedesco sottotitolato in cinese e ridono come matti. Mi volto guardo Emily che ha cercato di tradurre il cartello vergato in romanesco da T.S.Elliot le direi che quando iniziai ad amare la poesia la prima cosa che feci fu imparare a memoria una sua poesia dopo aver letto Lezioni Americane di Italo Calvino ma taccio e penso alla mia Musa, guardo la televisione sul palco suonano i Rolling Stones un po' matusalemme sembrano morti che ballano, dalle nostre parti si dice: la morte ubriaca. Al tavolino nell'angolo Andy Wharol mangia un hamburger il cineasta della Factory lo inquadra per tutta la scena dello spuntino, nel finale Andy si presenta al pubblico " my name is Andy Wharol just finally eating hamburger " si alza si aggiusta la cravatta scompare dalla telecamera la quale registra la scena della vetrina oltre la vetrina un paio di gambe che passano svelte un cane di piccola taglia al guinzaglio annusa un angolo. Emily con mia sorpresa traduce il cartello in romanesco di T.S.Elliot sorride. Vedere i Rolling Stones nonostante siano eccellenti strumentisti mi deprime, sono delle carcasse. Se qualcuno di loro morisse mentre suona non mi stupirei: sarebbe uno scoop. Vedremmo la morte in diretta infinite volte, da tutte le posizioni come una lezione di kamasutra. Le gambe inquadrate dalla telecamera della Factory di Andy Wharol trasportano il corpo di un uomo corpulento che lega il cane al guinzaglio al muro entra parla in francese ha una Goluoise bianca gli penzola dalla bocca i baristi cinesi distratti lo ascoltano a braccia conserte sul bancone chiede un Pernot. Si guardano stupiti non sanno che cosa sia un Pernot. Da attore consumato il francese corpulento estrae dalla tasca per i due a bocca aperta una bottiglia di Pernot, sorride mi guarda: ho il nome sulla punta della lingua di sto tipo  l'ho visto in fotografia è  Jaques Prevèrt. L'aeroplano a motore di nome Pippo sorvola la zona della ferrovia una volta sulle nostre teste lancia distribuisce volantini. Jaques Prèvert esce dal bar col la bottiglia di Pernot in mano guarda in alto il volo della cicogna in ferro lo svolazzare dei volantini ne raccatta qualcuno rientra in bar assorto nella lettura. Col volto interdetto mi mostra il volantino dove non compare nessuna scritta. Ian Curtis cresciuto in una suburbia, smaliziato, con una moneta di alluminio magnesio delle 10 lire Italiane dove compaiono le due spighe di grano dall'altro lato l'aratro, gratta sul volantino, dove compare un messaggio un ologramma della Musa. Il cane legato al guinzaglio è un Jack Russel dal temperamento dinamico quando vede la gatta rossa di dove lavoro, la Mimina che salta sul davanzale per addentare la colomba, si divincola col collare inerte strisciante a terra la rincorre abbaiando con decisione. La colomba vola per tempo evita di diventare pasto per la Mimina, non le rimane che addentare la mano bonsai nel vaso il quale sente i denti aguzzi affondare nel legno lancia un urlo che atterrisce. Il Jack Russell fugge nell'angolo si lega il guinzaglio all'anella, la Mimina scompare. Leggo il messaggio ologramma della Musa, Ian Curtis si allontana senza chiedere di tradurlo. Emily non chiede, capisce. T.S.Eliot è disinteressato gioca alla slot machine Jaques Prèvert mi recita una sua poesia di amore. Qui est là / Personne / C'est simplement mon coeur qui bat /Qui bat très fort / A cause de toi / Mais dehors / La petite main de bronzesur la porte de bois / Ne bouge pas /Ne remue pas / Ne remue pas seulemente le petit bout du doigt. ( Chi è / Nessuno / E' solo il mio cuore che batte / Che batte forte forte / Per te / Ma fuori / La manina di bronzo sulla porta di legno / Non si muove / Non si agita / Non muove nemmeno la punta del dito ) Annuisco: lo so bene. Rodolfo miagola, fuori dalla vetrina mi ha individuato, cerca la porta di entrata, s'infila tra le gambe dei tavoli, di quelle umane, salta sulla sedia fa le fusa si accocola tra le gambe. Gene Hackman e Ava Gardner si siedono a tavolino al freddo lei indossa maglia gonna scuri in tinta, una pelliccia di volpe due orecchini d'oro ai lobi, Gene Hackman ha pantaloni di lana, giacca da caccia di tweed e cravatta di seta smeraldo un cappello con la piuma. Ava Gardner mi saluta Gene Hackman mi sorride il cane un kurzhaar, mi fa le feste mentre mi avvicino, è la Nori. Gene Hackman è mio nonno Ava Gadner mia nonna si toglie gli occhiali, rimuove con perizia l'occhio di vetro lo pulisce come una lente appannata l'infila di nuovo nell'incavo mi chiama Nìgò, il soprannome che usava quando ero bambino. L'ultima volta che li vidi a tavolino insieme, eravamo al lago di Lucerna negli anni 70: ordinammo un gelato, ce lo servirono in un bicchiere con un biscotto infilato di traverso. Del bicchiere ricordo tre petali in vetro, il gelato stucchevole come tutti i supermercati dove mia nonna amava andare. Li, la sua immaginazione, correva ragazza / donna superava panorami di misera guerra, la curiosità soddisfatta, il desiderio di stupirsi su tutti i prodotti, come ci si stupisce d'amore nelle fiabe, oltre ad essere novità da poter acquistare.  Mia nonna aveva una qualità, rendeva tutto il mondo che la circondava effervescente. Aveva avuto in dono assieme a mio nonno l'incanto della consuetudine. I boschi che circondavano la cittadina in cui vivevamo, le vetture che scorrevano sulle strade moderne di allora, l'architettura dei ponti simile al viso dei contadini del luogo, la ferrovia scorrevole dai locomotori pesanti, la neve che appesantisce le fatiche fisiche e allevia il senso mortale della vita, la luna magica illusione, il cielo stellato infinito corpo mistico in ognuno di noi; la magia di allora che è perduta, la incontro solo nelle poesie, mentre allora tutto risultava magicamente plastico vivo dentro e fuori, le persone seppur serie, ieratiche, brillavano. I miei nonni scompaiono, Rodolfo acciambellato non più sulla sedia ma sul termosifone dorme sereno quando torno. Il bar pare uno scheletro di cose senza nessuna anima, Emily ha lasciato il suo bicchiere di Daiquiri sul tavolo vicino alla tazzina di caffè, pago il conto me ne vado.        
         


                         

lunedì 23 gennaio 2017

quattrocentonovantaquattro




 - Gloria Swanson -


La tipa siede col tipo dal volto rurale, profuma di stucchevole, ha un accento volgare che non irrita, indossa stivaletti provocanti, conversa con fare risoluto da chi nella testa ha un pensiero la volta. E lo indirizza senza tanti fronzoli al tipo rurale che ha fronte: fare modesto, d'intelletto sagace su cose ovvie, opera pia nella gestualità, mondano senza strafare, di poche parole. Pseudo-vigile alle parole che giungono dal reale dal tipo rurale, la tipa legge messaggi al telefonino che le illuminano il volto coperto dalla penombra. Bevo il mio gin tonic: gin Bombay ha un gusto più rotondo, meno secco del Gordon. Il barman a volte me lo fa pagare 4 euro altre 6, dipende a che ora ci vado. Con la cannuccia nera mescolo il ghiaccio nel bicchiere, il tintinnio del vetro mi ricorda la battuta di John Lennon alla platea in teatro quando invitò a battere tutti le mani: quelli delle prime file potevano far tintinnare i gioielli. Le due ragazze poco più in là si amano si parlano lei mascolina giovane si alza dalla sedia si avvicina alla compagna amica, la bacia appassionatamente, si risiede, si rimette a dialogare ad alta voce da chi è abituato a dialogare nei locali dove la musica è ad alto volume. Lei mi dà le spalle, ascolta lo sfogo dell'altra lei, che in due battute si rasserena, si guardano intensamente dicendosi, amore, cara, ti amo, si ribaciano, abbondano di effusioni, si danno la mano, escono per fumare. Il mio gin tonic continua a tintinnare mentre mescolo il ghiaccio cerco la fettina di limone.  La tipa guarda il telefonino abbozza un discorso col tipo rurale: ...gli emigranti non è giustificabile che l'Italia... eccetera eccetera, il tipo rurale le spiega che 20 anni prima non era così. La discussione si perde tra le note di Living on the Edge di Marie. Bel & Grandmax. Laggiù la testa del barista apre il frigo a vetro osserva le etichette delle bottiglie. Un nord-africano alla moda con gli auricolari bianchi mi passa davanti, si ferma, assaggia gli stuzzichini al buffet. Il tipo dal volto rurale ha lo sguardo perso nel vuoto da animale malinconico, non ho idea di cosa possa pensare, oppure si ascolta; lei distoglie lo sguardo dal cellulare, guarda il tipo rurale senza dargli importanza col tono da emancipata, tipo : mentre sull'asse da stirare stira fazzoletti e mutande, gli dice che trova normale che una donna abbia amicizie maschili. Al rurale gli viene la tremarella nella voce, gli si gonfia il collo, la t-shirt sotto i pettorali con la scritta de puta madre spampana, irrigidisce esercita l'auto-controllo, laconico le dice " io non ho amiche ! " lei gli dice che lei si, ha amici, stentorea gli chiede" ...non sarai mica geloso... ? ".  Il rischio del litigio viene meno, lui si distrae sul fondo schiena di una delle ragazze tornata da fuori dopo aver fumato la sigaretta. La proprietaria del fondo schiena somiglia a Gloria Swanson in piccolo. Minuta come l'altra ragazza che assomiglia anch'essa ad un'attrice d'un film muto, più mascolina di Gloria Swanson. Si avvicinano con passione si baciano come nel bacio di Robert Doisneau; al rurale che le osserva pensando a cosa rispondere gli si ingentilisce il volto guarda la sua tipa profumata, come si guarda la donna da un certo momento in poi. Le due innamorate si sciolgono dal bacio, si siedono, si ribaciano, si parlano all'orecchio, si distanziano, di nuovo si guardano carne e amore, la ragazza dice " io sono una ragazza insoddisfatta " guarda Gloria Swanson che le risponde, muove le mani, si libera alla luce un minuscolo tatuaggio, le unghie vermiglio brillano, le mani bianche diafane bellissime. " C'avresti un bel coraggio !" si sente dire da lui col volto rurale più intenso e scavato di sofferenza gli torna su un rimasuglio della discussione di qualche minuto prima " c'avresti un bel coraggio ! " la ragazza col cellulare in mano con prudenza femminile non risponde. Il tipo dal volto rurale insiste per portarla all'angolo della discussione. Nel silenzio che intercorre tra loro ordina una birra. La ragazza continua a messaggiare al telefonino, riprende la situazione in mano con calma gli sfiora idealmente i testicoli accarezzandolo tenta d'ingentilirlo come si fa con i tori. Gloria Swanson bacia al collo la ragazza che ama, paiono disinteressate da tutto tranne che amarsi, la ragazza risponde toccandole i seni, si alzano, s'illumina il cellulare, Gloria Swanson risponde ricomponendosi nella voce, raccoglie la borsetta, la sciarpa, entrambe s'indirizzano verso l'uscita. Salgono in macchina se ne vanno. 
               

quattrocentonovanatrè



Willy de Ville 


Il tipo ha un capo spalla marron da cow boy delle montagne rocciose, di quelli che s'indossano in una tormenta di neve; ha lo sguardo di chi osserva un avamposto dove finalmente riuscirà a bere qualcosa di caldo nella tazza che stringe tra le mani, da un samovar tolto dalla piastra sulla stufa. Entra dalla porta vetro, si avvicina al bancone del bar come se entrasse in un saloon prima d'una carneficina pulp. I risvolti ricciuti del montone maniche / collo evidenti, i capelli sono spettinati da pianista geniale: forse lo è, mai disperare l'eccezionalità: pepite nella grotta dell'ovvio. Tatuato ovunque tranne il viso ricorda vagamente uno dei tre moschettieri di Dumas, perlomeno lo evoca ( privo di piglio ironico sotto i baffi ) ma non ha il phisique du role da spadaccino del Re. Ricorda piuttosto Willy de Ville dei Mink de Ville calza un paio di vaqueros da messicano, da chi vive in un ranch a El Paso nel Texas, oppure evoca la vacanza nella regione della Camargue a sud della Francia nella cittadina di Saint Marie de la Mère, dove vivono gli zingari e le fameliche zanzare estive che atterrano sulla cute per succhiarti il sangue, tranne quando soffia il vento. Pare si sia studiato il copione comportamentale da divo di provincia prima entrare, tra noi zotici incolti. Guarda il barista con l'espressione psicopatica, con due mosse pseudo-nobili da salotto kith disprezza il luogo da mensa popolare, si rivolge al banco il barman risponde " và là". Deve avergli detto una cazzata fuori misura per avergli risposto va là. Mi aspetto che dietro l'attore compaia la macchina da presa, il regista, l'aiuto regista, compagnia bella. E' vita vera.  E io sono in prima fila non ho pagato il biglietto solo la consumazione: il gin tonic fatto col Tanqueray Ten, se esageri ti dà l'impulso di far l'amore con chiunque pensando sia normale, rinveni scopri che hai fatto l'amore con uno gnomo con la parrucca da prima donna, ti sei intrattenuto filosoficamente con un paio di baldracche polacche con le pieghe dell'infelicità negli occhi, parlato con un rinsecchito di sinistra che chiede attenzione per i suoi castelli svaniti nell'aria: di fronte a questa infelicità ordini l'ennesimo gin tonic col Tanqueray Ten. Non per fare il moralista, ma quello che voglio dire è che il gin tonic è un circolo vizioso, il cane che si morde la coda. In ogni caso al barista che gli dice va là, distratto dal Samsung Galaxy a 3, Mink de Ville appena vede che solleva il capo per dirgli un altro va là, gli dice che: ha tre appartamenti a Milano, è una sorta di manager, uno scienziato, un ingegniere di Google, stilista per grandi aziende, desiger di prototipi, il barista non riesce ad abbassare la testa e continuare col pippiripì / pippiripì del giochino stordito dalla rapidità dell'eloquio, un po' interessa sapere di tutto questo lusso che deborda dalle parole, ma ne farebbe anche senza resta ipnotizzato qualche istante di troppo; Mink De Ville attento al canovaccio ipnotizzato / distratto, le dice più fragorose, alza la voce, sente l'effetto cinematografico della voce che risuona roboante tra la plebe seduta come me, nelle quotidianità dei fatti propri beve qualcosa, parla sottovoce, gusta qualche stuzzichino, ma non può fare a meno di farsi anche gli affari di Mink de Ville che straparla, strabeve, stramangia, rigorosamento tutto col prefisso stra; si spazzola con la mano le briciole sulla camicia, si concentra di nuovo nella recita dell'uomo di successo per la platea di noi avventori sfigati. Il barista occupato con il giochino pippirippipì / pirippippì del Samsung Galaxy a 3 che lo fa disperare si fa scappare un porco qua / un porco là in cinese. Mink de Ville esperto in relazioni del cazzo nonostante il disinteresse del barista a starlo a sentire, non molla la presa: è uno stoico liberista di se stesso nel mercato libero da cazzaro. Ne ha talmente tante da dire che s'incolla al banco con la postura di chi non si fa intimidire dal silenzio, dalla vergogna, dal fuori luogo, beve una birretta ad alta voce, si guarda attorno, sguardo inornato da ratto, attacca la sinfonia madre di tutte le battaglie: snocciola gusti, le feste cui partecipa, le donne che conosce, le vetture che ha guidato, i vestiti che indossa, le cene, i locali che frequenta, donne con cui ha fatto l'amore, personaggi con cui ha confidenza culo / mutanda, un personaggio famoso con cui ha pranzato c'è un selfie che li ritrae insieme, l'ha incontrato ad un Mc Donald poi hanno mangiato parlando di affari, gli aperitivi, ecc. si spettina nervoso come a mangiarsi le unghie si riavvia la chioma dal klezmorim, senza conoscere una nota di violino nè di soul nè di musica etnica dei balcani tantomeno è ebreo askenazita, solo un super uomo del nostro tempo decadente. Un po' di tutto, niente di originale, un patch work culturale, talmente abituato a mostrasi che ignora se stesso, si identifica nelle riviste di tendenza, un po' più approfonditamente nelle trame dei film, poi su quello che è il suo proscenio da cui vede dall'alto in basso gli occasionali spettatori della sua esistenza mi scorge. Con un taccuino aperto sul tavolo, una penna tra le dita, indosso la maschera Anonymous di Guy Fawkes.